Politica

M5s: non hanno sbagliato Nogarin o Pizzarotti, ma Di Maio

Capisco che la cosa imbarazzi e ferisca i 5 Stelle, ma l’errore non lo hanno fatto (al momento) Nogarin o Pizzarotti: lo ha fatto Di Maio. Perché Pizzarotti dovrebbe dimettersi? Al momento (e sottolineo al momento) il suo avviso di garanzia per abuso d’ufficio è effettivamente, come lui stesso ha detto, “un atto dovuto”. Pizzarotti è indagato in merito alle nomine del direttore generale e di un consulente del Teatro Regio. Con lui sono indagati l’assessora alla Cultura (Laura Ferraris) e tre membri del CdA del Teatro Regio. Le due nomine furono decise al di fuori del bando pubblico perché, al termine della “ricognizione esplorativa” (cioè il bando), nessuno dei trenta candidati parve avere i requisiti necessari. Così fu deciso, da Pizzarotti e dai quattro indagati, di prendere due dirigenti fuori dalla rosa.

L’indagine nasce da un esposto in Procura presentato dal senatore Pd Giorgio Pagliari. Questo esposto ha aperto un’indagine. Ne consegue che Pizzarotti sia indagato come risultato di un “atto dovuto”. Né più né meno. Se si dimettesse sarebbe un imbecille, e Pizzarotti imbecille non è. Vale per ora sostanzialmente lo stesso per Nogarin, indagato a seguito (pure qui) di un normale atto amministrativo (ha assunto precari alla nettezza urbana di Livorno). Chi fa cadere su di loro le colpe dei disastri immani commessi da decenni di governi orrendi di centrodestra e centrosinistra, o è una Picierno o è in totale malafede. O entrambe le cose. Pizzarotti è appena stato sospeso dal M5S, che lo accusa di non avere avvertito per tempo in merito a un avviso di garanzia di cui sapeva da mesi. “Sapeva della indagine, trasparenza è primo dovere”. Sarà, ma messa così sembra più che altro un dispetto a un dissidente che non una scelta logica

Allo stato attuale, nessuno dei due deve dimettersi. Perlomeno per ciò che ci è dato sapere dagli atti. Discorso diverso sarebbe, per esempio, se Pizzarotti avesse nominato amici o parenti (do you know Alemanno?). Come scrive Marco Travaglio stamani: “E’ ovvio che Pizzarotti non si debba dimettere solo perché è finito nel registro degli indagati: altrimenti, per far fuori un sindaco, basterebbe una denuncia dell’opposizione. E così tutti i sindaci di Italia cadrebbero come birilli”. Non diciamo sciocchezze, su: quelle lasciamole all’Unità e a Mary Therese Meli.

Si dirà: eh, ma tutta (o quasi) la stampa equipara Parma e Livorno a Lodi o gli altri 3987 casi che riguardano e costantemente travolgono il Pd renziano. Sai che scoperta. Lo avevamo già visto con Quarto, assurta a centro del mondo sebbene il sindaco 5 Stelle avesse avuto l’unica colpa di negare il ricatto subito, opponendosi però (che è quel che più conta) alle infiltrazioni camorristiche. Non mi pare la stessa cosa fatta, per dire, dal Presidente campano del Pd. L’informazione, in Italia, funziona quasi sempre così: se sbaglia il Pd è normale, se (forse) sbaglia il M5S bisogna invadere la Polonia. E’ così dal primo V-Day dell’8 settembre 2007.

C’è però un punto che i 5 Stelle non devono negare: la responsabilità di Luigi Di Maio. Ha sbagliato e non possono non ammetterlo. Lasciamo stare i deliri che qua e leggo in Rete, tipo “giustizia a orologeria per far perdere al M5S le amministrative”: erano le stesse cose che diceva Berlusconi, e se i grillini vogliono continuare a definirsi “diversi” dagli altri devono isolare al più presto questi casi umani che hanno frainteso la politica per calcio e tifano neanche fossero in curva. La stessa Virginia Raggi, a Radio Città Futura, se da un lato ha giustamente detto come “sia doveroso capire bene quali siano le circostanze prima di poter dire qualcosa”, dall’altro lambisce pericolosamente il berlusconismo più becero laddove afferma che “altrimenti si avrebbe una sorta di strapotere della magistratura“. Certi toni lasciamoli ai Brunetta qualsiasi.

Il punto è un altro: se siamo tutti d’accordo che esista caso e caso, e che ci si debba dunque dimettere ben prima della sentenza definitiva di fronte all’evidenza di un’accusa infamante, o di una intercettazione imbarazzante (i casi Guidi, Graziano, Uggetti, etc), occorre anche essere tutti serenamente d’accordo che tutto questo imbarazzo nei 5 Stelle sia stato generato da “quella” intervista di Luigi Di Maio. Sento già i difensori a oltranza del grillismo: “Eh, ma Luigi voleva dire altro, intendeva sottolineare la scarsa attenzione di Renzi alla questione morale, etc”. Certo. Ma la forma è sostanza e non l’ho deciso io di fare il parlamentare e di correre pure come Presidente del Consiglio. Lo ha deciso Di Maio. E per Di Maio la forma è appunto sostanza. Non conta solo quello che vuole dire, ma anche e soprattutto ciò che dice. E come ciò venga percepito. Oltretutto, essendo un 5 Stelle, Di Maio è condannato alla mitraglia anche solo se sbaglia un congiuntivo. Renzi può sbagliare sempre (e lo fa), Di Maio non può sbagliare mai.

C’è poco da girarci intorno: quella intervista, e quella frase, furono una cazzata. Una gigantesca cazzata. Anche contenutistica, perché Di Maio – sostenendo genericamente che tutti dovessero dimettersi dopo un avviso di garanzia – neanche pareva dimostrare di conoscere la differenza minima tra “indagato” e “imputato”. Nulla di grave, tutti sbagliano. Io per primo. Pensate: per un po’ ho persino creduto alla buona fede di Luis Eccetera Orellana. E per un po’ ho persino creduto alla Befana che vien di notte con le scarpe tutte rotte. Ma se a sbagliare è il candidato (de facto) Premier della maggiore forza di opposizione, l’errore fa più rumore. E Di Maio lo sa. Lo sa bene.

C’è, all’interno dei 5 Stelle, una sorta di gelosia nei confronti di chi – Di Maio su tutti – è diventato troppo più importante degli altri. E’ una gelosia stupida, se nasconde solo l’invidia per chi è più famoso di te (cosa peraltro giustissima: se Di Battista va in tivù più di una Lombardi c’è un motivo. Di Battista sa fare tivù, la Lombardi no. O sa farla per il Pd, perché induce a votare tutti tranne il M5S). Se però quella “gelosia” tradisce non invidia, ma la paura che si vada così perdendo l’originaria natura collettivista dei 5 Stelle, allora non è una paura stupida. O perlomeno non del tutto infondata.

Le prossime settimane ci diranno molto sulla capacità effettiva dei 5 Stelle nel metabolizzare gli errori e nel gestire un difficile percorso di crescita che li costringe a diventare adulti in fretta. Molto in fretta. Si diventa adulti anche e soprattutto sbagliando: purché però si ammetta l’errore. Che, al momento (e sottolineo al momento), non è di Nogarin o Pizzarotti, che in città devastate (dagli altri) se non altro ci stanno provando, ma di Luigi Di Maio.