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Banche, la missione impossibile del fondo Atlante. Tra munizioni troppo scarse per salvare il sistema e dubbi sulla governance

Lo strumento nato per evitare il bail in della Popolare di Vicenza non ha un orizzonte strategico e il mercato se n'è accorto. Anche per questo la speculazione ribassista non molla la presa sugli istituti, come prova il crollo del Banco Popolare. E a breve arriverà la prova dell'aumento di capitale di Veneto Banca

Costituito in fretta e furia per risolvere alcuni problemi contingenti, primo fra tutti il rischio bail-in che gravava sulla Popolare di Vicenza, il fondo Atlante si ritrova già a dover sciogliere alcuni nodi che nelle prossime settimane rischiano di ingarbugliarsi ancora di più. Presentato alla comunità finanziaria e alla stampa il 29 aprile come un fondo “anchor”, che mai e poi mai avrebbe assunto un ruolo di direzione e coordinamento sulle banche partecipate, si è ritrovato pochi giorni dopo a dover radicalmente modificare la propria natura, adattandola alla nuova realtà dei fatti: quella di essere sostanzialmente l’azionista unico della Popolare di Vicenza con una quota superiore al 99% del capitale. Una conseguenza, questa, della decisione di garantire l’integrale sottoscrizione dell’aumento di capitale da 1,5 miliardi anche nel caso in cui la Vicenza non fosse stata quotata in Borsa. Se Atlante non avesse agito in questo modo, il bail-in sarebbe stato inevitabile con conseguenze molto pesanti sia per il sistema bancario (la Vicenza è la decima banca italiana e una procedura di risoluzione avrebbe avuto conseguenze sistemiche), sia per le famiglie e le imprese.

Questa adattabilità alle circostanze, però, tradisce la vera natura del fondo, che risulta privo di un reale orizzonte strategico votato com’è a tamponare le emergenze. Il mercato se n’è accorto subito e anche per questo la speculazione ribassista non molla la presa sulle banche italiane, finite per l’ennesima volta al tappeto per via delle loro debolezze strutturali oltre che per i conti trimestrali, in molti casi inferiori alle attese. Prova ne è il crollo del Banco Popolare a causa delle rettifiche straordinarie richieste dalla Bce e dell’aspettativa di un aumento di capitale da un miliardo di euro da realizzare integralmente mediante l’emissione di nuove azioni. Il Banco, più volte sospeso per eccesso di ribasso nel corso della seduta, è arrivato a perdere oltre il 14% per poi chiudere a -9% e ha trascinato con sé la promessa sposa Bpm (-6,3%). Sarà necessario anche in questo caso un coinvolgimento di Atlante, posto che un intervento del fondo appare sempre più probabile per garantire il successo dell’aumento da un miliardo di Veneto Banca? La coperta è corta: se ne rende conto anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, uno dei principali sponsor del fondo, che da Londra annuncia che il “settore privato potrebbe decidere di rafforzare Atlante con ulteriori risorse” rispetto ai 4,2 miliardi raccolti.

Ma le mosse banche italiane non hanno certo la stessa forza del “whatever it takes” con cui Mario Draghi salvò l’euro nell’estate del 2012: le munizioni sono scarse e perfino un colosso come Unicredit, che pure in Atlante ha già versato un miliardo, viaggia sul filo del rasoio e rischia di dover varare presto o tardi un aumento di capitale. Lo sanno le banche e lo sa la Borsa. Dunque? La missione di Atlante – quella di contribuire a un re-rating del settore bancario italiano – appare come una sorta di “mission impossible”. Non è vero infatti, come invece sostiene Padoan, che l’iniziativa del fondo sia stata “mal compresa”: la realtà è che non convince affatto il mercato. E il cambio di natura di Atlante, la trasformazione da “anchor fund” a una sorta di holding bancaria a partecipazione pubblica (la Cdp ha finora investito 500 milioni nel fondo) non aiuta.

Anzi, solleva nuovi interrogativi sulla governance del fondo stesso e su quella delle banche partecipate, oltreché sulle strategie di risanamento. Interrogativi ai quali Quaestio sgr, la società di gestione di Atlante, ha preferito non rispondere. Pochi giorni fa il fondo si impegnava a votare sulla nomina degli amministratori “attenendosi a stringenti criteri d’indipendenza”. Presto invece si troverà a rinnovare il consiglio d’amministrazione della Popolare di Vicenza dovendo scegliere degli amministratori esecutivi che dovranno cercare di risanare la banca rispondendo al tempo stesso a un’azionista la cui strategia dichiarata è quella di uscire dall’azionariato (possibilmente con profitto) in 18 mesi. Faranno l’interesse della banca o quello dell’azionista che – dato il limitato orizzonte temporale dell’investimento – potrebbe essere portato a privilegiare soluzioni spicce?

Al momento l’assemblea per il rinnovo del cda della Popolare di Vicenza non è ancora stata convocata. Con ogni probabilità Atlante aspetta di capire se sarà necessario anche il suo intervento in Veneto Banca, dove già Mediobanca si è resa disponibile a prenotare una quota in sede di aumento di capitale per favorirne la quotazione in Borsa (la stessa cosa era stata fatta con la Vicenza, ma non si è rivelata sufficiente). Se il fondo guidato da Alessandro Penati dovesse entrare anche nel capitale di Montebelluna con una quota importante, la strategia delle due banche venete ne risulterà necessariamente condizionata, spingendo magari verso un’integrazione che per Atlante potrebbe rappresentare una rapida way out dall’investimento, ma che rischierebbe di mettere semplicemente insieme due debolezze generando forti sovrapposizioni territoriali. Le due banche venete, aumenti di capitale a parte, si trovano infatti ad avere un livello molto elevato di sofferenze, hanno sperimentato un vero e proprio crollo della raccolta a causa della fuga della clientela e vi è una generalizzata sfiducia sulle loro prospettive future. Un’integrazione tra le due risolverebbe forse qualcosa? Staremo a vedere, ma è chiaro che presto questi nodi verranno al pettine e qualche risposta bisognerà pur iniziare a darla.