Cinema

‘The Hateful Eight’ e i gloriosi 70mm di Quentin Tarantino

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Due film fa i suoi Bastardi erano senza Gloria. Eravamo immersi nel nazismo e il ricordo di Hitler andava umiliato come fosse una caricatura. Anche a costo della mascella di Brad Pitt alla Marlon Brando. Poi è arrivato il selvaggio West di Unchained Django e la musica è cambiata: epica del Western, il DiCaprio schiavista denti e cuore marci, lo splendore pulp di Jamie Foxx fino al finale con botto e rentrée testosteronica dell’eroe. Poi ancora il silenzio, supposizioni su nuovi progetti, e le nuove intenzioni agli speroni di Quentin Tarantino.

Ora ci siamo, il maestro/ragazzaccio del cinema contemporaneo ne ha fatta un’altra delle sue. Stavolta senza badare ai formati disponibili, all’avvenuto allineamento dei proiettori digitali, agli intervalli e neanche alla durata di essi.

See it in Glorious 70mm è uno dei claim intorno al film. Rimettendo in funzione lenti e macchine da presa lasciate nel dimenticatoio dagli anni ’60, Tarantino ha riscoperto, facendolo riadattare alle moderne tecnologie, il formato Ultra Panavision 70, una pellicola che offre sullo schermo una visione molto più larga e definita del solito. Con rapporti diversi da quelli ai quali siamo abituati, permette di girare gestendo la scena quasi come fosse teatrale. La qualità è di 6 volte superiore a quella di un film su 35mm, però necessita di sale diverse.

Sorpreso da un parallelo tra la battaglia Cow-Boys/Indiani e quella tra analogico e digitale propostogli durante la presentazione romana del film, il regista ha risposto sarcasticamente: “Mi sta anche bene. In realtà spero che la pellicola possa resistere più degli Indiani, anche se loro hanno combattuto e resistito facendogliele vedere di tutti i colori”.

In The Hateful Eight, complice un paesaggio unico e inospitale, si è divertito a raccontare con singole inquadrature le mosse di vari personaggi insieme, offrendo allo spettatore un inedito controllo visivo sulle azioni degli “odiosi” in retroscena. Una sorta di scacchiera d’attori della quale è metafora quella al centro della scenografia: l’Emporio di Minnie. Siamo tra le nevi del Wyoming. Una diligenza trasporta un cacciatore di taglie, Kurt Russell, e la sua prigioniera dal viso pesto di Jennifer Jason Leigh. Casuali incontri lungo la strada e la forzata convivenza di 8 brutti ceffi all’interno di una stazione postale isolata nella tempesta innescheranno una serie di eventi non dei più pacifici.

Il western torna a nuovi fasti e Tarantino dimostra che chiudendo in una stanza otto personaggi si può tenere il fiato sospeso per 3 ore. Anzi, 3 ore e 8 minuti se consideriamo l’intervallo della proiezione su 70mm e l’Overture di Ennio Morricone come preludio musicale alla visione. Trovate di marketing? Ma anche tanta affezione per il mondo analogico e le sue meraviglie. Le sale in Italia ad essere attrezzate per la proiezione nel formato originale sono soltanto 3: una a Melzo, Milano, una a Bologna e l’altra a Cinecittà, allestita per l’occasione nel mitico Teatro 5. Nelle altre sale durerà 16 minuti in meno e con una resa visiva un po’ sacrificata. Chissà se Tarantino sa, invece, che a 2 passi dal vecchio tempio del cinema sorge la casa del Grande Fratello. Ma questa è un’altra storia.

Il soundtrack fresco di Golden Globe e Nomination all’Oscar riporta Morricone al western dopo il recente La corrispondenza di Tornatore. Il Maestro romano ha sfornato nuove arie potentissime. Tube e fagotti come marchio di fabbrica sono espansi da elementi elettrici in diversi e appassionanti crescendo drammatici quanto ironici. Un doppio strato emotivo comune a compositore e regista. Emergono anche incursioni rock come la Apple Blossom dei White Stripes, o folk, come Jim Jones at Botany Bay, suonata sul set dalla sconvolgente Leigh. A proposito, la collera del suo personaggio è messa a riposo dalla sua espressione giusto per questa parentesi canora per la quale l’attrice ha appositamente imparato a suonare la chitarra.

Il cast stellare rende il massimo grazie non solo a dialoghi come micce e stacchi come schiaffi dai paesaggi musicati agli interni. Dal roccioso Russell all’istrionico Tim Roth, dal carismatico Samuel L. Jackson al misterioso Michael Madsen, passando per il monumentale Bruce Dern.

A quanto sembra, quest’anno gli Oscar saranno più bianchi che mai. Oltre a tifare Morricone, speriamo che almeno quello per la Miglior attrice non protagonista si sporchi con il sangue di Daisy Domergue, nuovo indimenticabile volto di Jennifer Jason Leigh.