Cinema

Cinema Alcazar, anche l’economia ha le sue forme di censura

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Qualche tempo fa ho visto all’Alcazar, la sala di Trastevere che sta per chiudere, un film che difficilmente avrei potuto vedere altrove, Karamazovi (I fratelli Karamazov), film ceco ambientato in un’acciaieria in Polonia in dismissione, di Petr Zelenka, premiato a Karlovy Vary, del 2008. Lingua originale con sottotitoli. Ci ho messo un po’ a trovarlo, l’Alcazar (non c’ero mai stato).

Il film è incentrato sul rapporto tra lo spettatore e l’attore in una scenografia di decadenza, da fine di un’epoca. Gli attori vengono da Praga e mettono in scena il romanzo di Dostoevskij, e un operaio resta ipnotizzato a guardare le prove. Arriva anche la figlia che muore in un incidente aggirandosi nella fabbrica, giocando tra le tubazioni e i ponteggi. Niente retorica all’italiana (immagino un evento del genere in un film con Castellitto e qualcuno a piacere alla regia, con primo piano sui pianti, come accade spesso).

Una delle attrici si incavola col padre per non avere guardato la bambina e gli fa una scenata. Lui non se ne va via lo stesso. Poi la moglie arriva a prenderlo. Quando si sono accese le luci in sala, ho realizzato che ero solo. Una sensazione provata durante la proiezione. Ero l’unico spettatore. In questa sala che mi chiedevo come riuscisse a rimanere aperta in un quartiere turistico come Trastevere. La bigliettaia credo fosse arrivata per me perché qualcuno aveva segnalato la presenza sospetta di un potenziale spettatore. Ma forse qui esagero e in fondo si trattava di una pellicola non proprio commerciale (per i miei gusti lo era all’ennesima potenza, mentre Star Wars non ha chance), inserita in una rassegna.

Non so se ho capito fino in fondo il film, e anche il mio ruolo di spettatore in una sala in dismissione che adesso chiude, che parla del rapporto tra messa in scena e spettatore in un’acciaieria in dismissione.Un tentativo così platealmente fallito di far vedere uno dei tanti film stranieri che secondo me meriterebbero di essere visti ed escono ogni anno in tutto il mondo, ma di cui ignoriamo l’esistenza perché non hanno nessuna speranza di entrare nei circuiti della distribuzione.

Penso anche, per stare in tempi recenti, a Il geografo si è bevuto il mappamondo (2013), di Aleskandr Veledinskij, ambientato in una scuola di Perm, commedia amara siberiana, meno cerebrale dei Fratelli Karamazov… L’ho vista all’Apollo, in piazza Duomo a Milano, che ora diventerà un Apple Store. Mi sembra che come strumento di conoscenza del mondo, e non solo come intrattenimento o grande opera d’arte, il cinema abbia in qualche modo fallito, ma forse mi sbaglio, e pretendo troppo.

La letteratura forse sta un po’ meglio, perché se voglio avere una selezione significativa di quanto esce, per esempio, in Est Europa, posso rivolgermi a ottime case editrici indipendenti come Keller, Voland, Zandonai, in passato e/o. Il cinema ha altri costi. Anche l’economia ha le sue forme di censura. Con la differenza che mentre la censura vera provoca un ritorno di visibilità, la censura del mercato è avvolta in una specie malinconia o rimpianto che somiglia all’indifferenza.