Capitoli

  1. Migranti, scafista pentito spiega il traffico in Libia: “Cantieri navali, armi, polizia corrotta e materassi pieni di dollari”
  2. "IN TUNISIA MI TORTURANO, IN LIBIA MI AMMAZZANO"
  3. "I TRAFFICANTI? IN LIBIA HANNO PURE I CANTIERI NAVALI"
  4. "AL CONFINE POLIZIOTTI TUNISINI CORROTTI". IL CLAN SU FACEBOOK
  5. "MI DATE IL PERMESSO DI SOGGIORNO? VOGLIO ANDARE IN GERMANIA"
Cronaca

"AL CONFINE POLIZIOTTI TUNISINI CORROTTI". IL CLAN SU FACEBOOK - 4/5

"Karim" ha solo 22 anni e per sfuggire alla cattura ha nuotato 12 ore sperando di raggiungere Marsala. Ma è stato "ripescato". Agli investigatori del Gcic di Siracusa, guidato dal sostituto commissario Carlo Parini, fa uno dei primi racconti dal vivo del traffico di uomini dall'ex Paese di Gheddafi ora in preda al caos. Al centro, un'organizzazione guidata da due fratelli con base in una villa bunker a Zuwarah. "Se torno mi torturano o mi ammazzano"

E così, grazie alla deposizione di Karim, il Gicic, ha scoperto pure i nomi degli “emissari” tunisini: “Si tratta di un gruppo di ex scafisti che dopo 4 viaggi nel Mediterraneo sono diventati pontieri fra i due paesi e corrompono poliziotti alla frontiera con la Libia. “Raccolgono informazioni, passeggeri da portare in Sicilia, anche dal Marocco”, precisa lo scafista pentito. Per dimostrare l’autenticità della sua versione, ha mostrato le loro foto su Facebook. E quando i membri del Gicic hanno visto che i due boss dell’organizzazione avevano nel profilo fra i loro amici i reclutatori, i facilitatori tunisini, poliziotti di entrambi i paesi,- sebbene abbiano visto di tutto in dieci anni di attività-, erano increduli davanti al loro arrogante senso di impunità. La notizia del legame della banda libica con la Tunisia è stata considerata uno spunto investigativo molto interessante e il commissario Parini ha chiesto a Karim di essere ancora più preciso. “Uno è riuscito a tornare a casa dopo quattro viaggi. Fuggendo senza farsi arrestare o attraverso i rimpatri forzati, uno da Caltanissetta, mentre un altro è passato da Malta (Paese che per i cacciatori di scafisti, di trafficanti e di terroristi è un buco nero perché è lì che si vanno a comprare i passaporti falsi). E a questo punto della deposizione pare che Karim fosse esausto. Parlava da tre ore, con aria agitata ed espressione spaventata. E allora un poliziotto gli ha detto: “Karim fumati una sigaretta, poi un giorno prendiamo una barca andiamo insieme a pescare”, ma lui, dopo la traduzione di Amir in arabo, lo ha guardato inquieto e ha scosso la testa, con sguardo implorante, come per dire: “Vi prego, basta barconi”, perché aveva capito male o era solo confuso, chissà.

Ed è così che finalmente la tensione si è sciolta in una grande risata in un tardo pomeriggio all’interno del caotico ufficio Gicic. Invaso da fascicoli, fotografie di barconi e citazioni di poesie appese sui muri, e scaffali con oggetti smarriti di rifugiati sommersi dalle acque o finiti chissà dove, dopo gli sbarchi nel porto di Augusta (leggi l’inchiesta di ilfattoquotidiano.it sui trafficanti). E’ la prima volta che al Gicic, dove il lavoro investigativo di solito si concentra sull’analisi della filiera dei trafficanti egiziani, un pentito racconta nei dettagli come si muovono i trafficanti in Libia. Secondo le notizie riportate da Karim, oltre ai due fratelli, il padre cassiere e la madre contabile, l’organizzazione ha una piccola milizia armata di tredici persone, che appare solo al momento degli imbarchi. “Se qualcuno cambia idea e non vuole più salire sul barcone troppo affollato per paura di affondare in mare, lo costringono con le armi”, ha raccontato Karim. Durante l’incontro, il commissario Parini ha voluto sapere di un poliziotto, il cui nome ricorre spesso nei loro verbali e il giovane tunisino ormai ex scafista ha confermato i suoi sospetti: “Sì è alto e magro, ha circa 37 anni e fuma molte sigarette, passava spesso dalla casa dove ci trovavamo. Prende 15mila dollari per ogni viaggio”.