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Charlie Hebdo, un anno fa l’attacco alla libertà di opinione. Viaggio nella redazione che adesso nessuno vuole

Il 7 gennaio 2015 due uomini incappucciati e armati entrarono nella redazione del giornale e uccisero 12 persone. Quattro giorni dopo due milioni di parigini sfilarono uniti in pace dal dolore, dall’indignazione, dalla repulsione di ogni fanatismo. Allora, come dopo gli attentati di Parigi, risuonò per le strade della città la Marsigliese. Intonata con passione e con profonda commozione. In quel momento e da allora siamo stati tutti "Je suis Charlie"

Que reste-t-il de nos amours… quando mancavano meno di dieci minuti all’inizio del 2016 e gli Champs Elysées erano gremiti di gente quasi come il Capodanno precedente nonostante le misure di sicurezza e una certa inquietudine, sono risuonate altissime le note della Marsigliese. Un brivido, stavolta non di freddo, è serpeggiato tra la folla. Non è smarrimento. Un grumo di emozioni ha aggrovigliato cuori e bocche di ognuno. Per esplodere irrefrenabile in un applauso che si rafforzava col passare dei secondi, che è durato tantissimo, e a molti è parso durasse una vita. Sull’Arc de Triomphe sono apparsi i colori della bandiere francese, un son et lumière forse patriottico, certamente identitario. Ma allo stesso modo, universale. Il totem della Repubblica laica… Era, l’applauso che non si spegneva, un segno. Un simbolo. Una volontà. Chi era lì, si è sentito addosso l’impegno morale del militante pronto a difendere la libertà, la fratellanza, l’uguaglianza.

Come un anno fa, dopo il 7 gennaio del 2015, dopo la mattanza di Charlie Hebdo, dopo l’attacco sanguinario alla libertà d’opinione. C’era stata la straordinaria mobilitazione della “marcia repubblicana”, domenica 11 gennaio: due milioni di parigini a sfilare uniti in pace dal dolore, dall’indignazione, dalla repulsione del fanatismo – di ogni fanatismo. Pure allora risuonò per le strade di Parigi, più struggente di ogni altra volta, la Marsigliese. Intonata con passione. Con profonda commozione. Lo so, c’ero. Eravamo “Je suis Charlie”. Camminavamo, ostentando una riscoperta: l’inattesa intensità della libertà contro l’oscurantismo, contro i seminatori d’odio, contro i manipolatori della paura. Passavamo dalla laicità-ignoranza alla laicità-tolleranza. Molti “marciatori” esibivano il Trattato sull’intolleranza di Voltaire, un libriccino ristampato in fretta e furia e venduto a centinaia di migliaia di copie. L’intolleranza, spiegava Voltaire nel 1763, è la radice dell’ipocrisia. Fu quella la prima giornata dell’internazionalismo democratico “che ci sia mai stata”, aveva assicurato lo storico Michel Winock. In nome di tre piccole, grandissime parole. In francese. Diventate italiane. Inglesi. Spagnole. Tedesche. Greche. Turche. Giapponesi. Persino arabe. E altre cento lingue. Con tutta la loro forza dirompente: un no a chi vuole impedire l’uso libero delle parole portatrici di pensieri, anche se diversi da quelli in cui si crede. Un no a chi voleva distruggere la laicità. Lo stesso giorno del massacro nella redazione del settimanale satirico era stato postato sul web un video in cui si sentiva proclamare: “E’ stato vendicato il profeta Maometto!”. Noi dovevamo reagire. E fu così.

Il nostro linguaggio, da quel giorno, ha subito tradotto, adottato e metabolizzato il senso più profondo di quell’invocazione che era anche professione d’identità e difesa culturale: “Je suis Charlie”. Un soprassalto collettivo per difendere i valori fondanti della democrazia, del pluralismo, della tolleranza. L’indomani di quella formidabile manifestazione, tutti noi pensavamo – e ci credevamo – che le vittime di Charlie Hebdo erano diventate i martiri di una nuova cultura sociale che si rifaceva ai principii. Tutti siamo “je”. Quelle tre parole erano diventate una sorta di codice. Gli attacchi del venerdì 13 novembre avevano infranto di nuovo quel confine. In mezzo, c’erano stati undici mesi di attualità incalzante: la crisi greca, il caso Volkswagen, l’emergenza migranti, i raid in Siria e Iraq, Putin, altri attentati. Il flusso degli eventi aveva cancellato “l’onda di choc” del 7 (e 9) gennaio? Quell’entusiasmo civico era stato rimosso? Qualcuno “rilesse” il dopo-Charlie. Abbiamo subìto il coprifuoco mentale, cominciavano a criticare i grilli parlanti dell’intellighentsia, l’autocensura e il pudore politico avanzano. Lo spirito di “Je suis Charlie” veniva offuscato dal dibattito sull’Islam, dal timore della destabilizzazione, dal rischio che la politica della sicurezza riducesse la libertà individuale. C’era chi aveva coniato l’antislogan “Io non sono Charlie”, il Financial Times si era spinto addirittura ad accusare Charlie di essere stato “stupido”. Il progressista giornale The Guardian, in un editoriale assai sofferto e costato un lungo dibattito interno, aveva annunciato che avrebbe donato ai superstiti di Charlie 100mila sterline, senza però sentirsi obbligato a riprodurre le caricature. Insomma, una solidarietà assai molto sorvegliata. Il New York Times, per esempio, aveva deciso di non pubblicare i disegni di Charlie, per non “urtare la sensibilità” dei lettori. Come conciliare libertà d’espressione e dovere di responsabilità?

Il dibattito sul diritto ad esprimersi senza limiti, quindi anche sulla religione, dilania l’opinione pubblica. Per questo, ho pensato fosse giusto recarmi dove tutto era iniziato. Certe volte, i sopralluoghi servono a rileggere trame, e riannodare pensieri a mente fredda. Per riflettere, senza il ricatto delle emozioni, giacché i fatti nudi e crudi, sebbene siano importanti, spesso confondono: eravamo stati “Je suis Charlie”, poi “Je suis Paris”… Ed eccomi all’angolo con l’Allée Verte, a sbirciare la targhetta stradale in smalto blu dell’XI arrondissement che indica rue Nicolas Appert (1749-1841), “inventore della conserva alimentare”. Il numero 10 è proprio lì a due passi. Una palazzina moderna degli anni Settanta, linee essenziali, bianca, di due piani. Si accede da un androncino. La porta d’ingresso, in vetro, ha gli stipiti di metallo. Al primo piano, c’era la redazione di Charlie Hebdo, il settimanale satirico. Adesso è vuota. L’hanno ripulita, imbiancata. La Régie immobilière de la Ville de Paris (Rivp), proprietaria dei muri, ha deciso di rimetterla sul mercato: 280 metri quadrati per almeno 4500 euro al mese. Vorrebbe affittuari che declinassero “valori come quelli difesi da Charlie”, ha detto uno dei dirigenti della Rivp, tant’è che dentro ci sarà una targa commemorativa. Però non sembra facile trovare clienti. La futura redazione di Les Jours (fondata da Raphael Garrigos e Isabelle Roberts, giornalisti che hanno lasciato Libération) ha declinato l’offerta un istante dopo averla ricevuta.

Per entrare, occorre digitare il codice numerico. Flash back. Quel mattino del 7 gennaio di un anno fa, verso le 11 e 30, Corinne Rey – la trentatreenne vignettista “Coco” – stava rientrando in ufficio, dopo aver preso la figlia al nido, per partecipare alla riunione di redazione. D’improvviso si ritrova affiancata da due uomini incappucciati e armati. “Apri! Digita il numero!”, le intimano. Sono i fratelli Said e Chérif Kouachi. Avevano sbagliato indirizzo, erano andati al numero 6. Le canne dei loro Ak-47 sono puntati contro Coco. Lei è costretta ad obbedire. Sparano ad un uomo che cerca inutilmente di opporsi. Irrompono in redazione. Gridano: “Dov’è Charb? Dov’è Charb?”. Charb, ossia Stéphane Charbonnier, il direttore. L’ultima vignetta che ha firmato, col senno di poi, sarà il suo epitaffio: è dannatamente premonitrice. Ha disegnato infatti un talebano con kalashnikov in spalla che spegne qualsiasi illusione sull’apparente tregua che ha risparmiato la Francia dagli attentati. “C’est-moi!”, risponde fieramente Charb.

Li sfida con lo sguardo. Loro, sorpresi, lo fissano negli occhi per qualche secondo. Vorrebbero incutergli terrore. Intimidirlo. Vorrebbero che implorasse pietà. Che si umiliasse. Ma Charb è anni, ormai, che convive con le minacce. Nel 2011 un incendio devastò la redazione dopo l’uscita di un numero dedicato alla vittoria elettorale degli islamici in Tunisia. Per l’occasione, aveva ritoccato la testata: Charia Hebdo, irridendo così la sharia, la legge musulmana. Nel 2012, su Internet c’è chi invita a decapitare Charb. E’ un jihadista, lo arrestano a La Rochelle. Charb commenta: “Preferisco morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio”.

Una raffica lo fulmina. Poi comincia la mattanza. Corinne si salva gettandosi sotto una scrivania. Anche Laurent Leger. I due Kouachi chiamano per nome i “nemici dell’Islam”, i profanatori che secondo loro – secondo al-Qaeda, alla quale dicono di appartenere – hanno sbeffeggiato la loro religione. Uccidono Jean Cabut, il vignettista “Cabu”. Poi Georges Wolinski, Barnard Verlhac (Tignous), Philippe Honoré. Ammazzano Mustapha Ourrad, il curatore editoriale. Bernard Maris, economista e professore universitario. Michel Renaud, fondatore del festival Rendez-vous du Carnet de voyage. Perde la vita Frédéric Boisseau, che si occupa dei locali. I giornalisti Philippe Lancon e Fabrice Nicolino sono feriti gravemente, come il vignettista LaurentRissSourisseau e il webmaster Simon Fieschi. All’avvocatessa e scrittrice Sigolène Vinson le risparmiano la vita: “Non ti uccidiamo perché non uccidiamo le donne, ma tu leggerai il Corano”. Sono bugiardi. Hanno ucciso Elsa Cayat, psichiatra e giornalista. Frank Brisolero, guardia del corpo di Charb e addetto al servizio di protezione del giornale, è un’altra vittima. Come lo sarà l’agente di polizia dell’XI arrondissement Ahmed Merabet, che viene finito in strada con un colpo in testa, dopo essere stato ferito. Hanno attaccato l’Occidente del pensiero libero: l’hanno sbrecciato nel corpo e nell’anima.

Rénald Luzier, al secolo Luz, il vignettista che era andato a comprare una torta e si è salvato per puro caso, li vede uscire. Ombre nere. Agitano i mitra. Luz capisce. Corre disperato, mentre le sirene della polizia diventano sempre più forti e vicine. Sarà lui a ideare la copertina del “numero dei sopravvissuti”, tirato in 7,5 milioni di copie: ha raffigurato, su sfondo verde (il colore sacro dell’Islam) Maometto in forma di membro maschile con turbante bilobato (sembrano due palle affiancate) che dice Tout est pardonné, mentre una lacrimuccia scivola da un occhio. Il Profeta regge il cartello: “Je suis Charlie”.

Riss diventerà direttore. Luz metabolizza la tragedia. Prepara un album. Lo intitola Catharsis. È il tentativo di guarire, “ci siamo detti, il disegno e io, che non saremmo stati più gli stessi, come tanti altri”. Dichiara che non disegnerà più Maometto. Che la sua non è resa. È noia. È malessere: “Io non sarò più Charlie Hebdo, ma sarò sempre Charlie”. Nei giorni in cui si confida, esce un libro dello storico e demografo Emmanuel Todd, Qui est Charlie?. In cui sostiene che la grande manifestazione dopo “la macelleria islamista”, è stata una mistificazione politica, una “grande menzogna” orchestrata da François Hollande. Cortei reazionari, zeppi di “cattolici zombie, retrogradi e antirivoluzionari”. Nella confusione religiosa globale, scrive, si possono identificare quattro elementi fondamentali. La mancanza di fede generalizzata. L’ostilità verso l’Islam del gruppo dominante. L’aumento dell’antisemitismo in questo gruppo dominato (gli islamici), la relativa indifferenza del mondo laico dominante verso l’aumento e la forza dell’antisemitismo.

Accanto al 10 di rue Nicolas Appert c’è ancora un cartello, sbiadito dalla pioggia: Je suis Charlie. Comunque. Comunque, dopodomani Charlie tira un milione di copie per un numero speciale di 32 pagine, in memoria dei colleghi uccisi sull’altare della satira. Ridete, per Dio! Quale, non importa.

Da Il Fatto quotidiano del 04/01/2016