Cultura

Pier Paolo Pasolini: dall’antifascismo all’usura dei simboli, ritratto dell’intellettuale corsaro

L’intellettuale dovrebbe essere un ordinatore nel caos della realtà sociale e fornire a chi lo legge un quadro interpretativo. Pier Paolo Pasolini era questo e molto altro, un uomo libero che non ha mai indugiato a prendere posizione, senza preoccuparsi delle critiche, senza mirare a ingraziarsi qualcuno.

All’inizio degli anni Settanta, il direttore del Corriere della Sera, Pietro Ottone, chiama Pasolini a collaborare “con il quotidiano della borghesia” e i suoi articoli trovano spazio in prima pagina. Quei contributi, assieme ad altri interventi, sono stati raccolti in Scritti Corsari e Lettere luterane. Siamo di fronte al Pasolini interprete del suo tempo, ossessionato dall’omologazione, parola chiave di quasi tutti i suoi articoli “corsari”, riversata sul lettore con tutto l’orrore luddista, non senza eccessi e appiattimenti.

Fascismo, antifascismo, Chiesa, classe media, consumo, edonismo, cultura sono tra i riferimenti più continui di questi scritti e tutti si coniugano con l’omologazione, vera reggitrice di significati. Per Pasolini l’omologazione abolisce la distinzione tra fascismo e antifascismo, la distinzione tra le classi sociali – in luogo di un’unica classe consumatrice – dissolvendo il potere della Chiesa. La propensione al consumo non pareggia le distinzioni di reddito, semmai, il conformismo che ne deriva, diventa un pensiero unico repressivo, ammantato dall’edonismo, da un’esibita gioia di vivere e da una libertà solo apparente. L’omologazione diventa la vittoria dell’uomo normale, spogliato della sua cultura e delle sue passioni.

Un’evoluzione che ha “tratti feroci” e “una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto”. Il nuovo potere realizza un “fascismo totale”, ma – dice Pasolini – “non so in cosa consista questo nuovo potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è”. Di certo, ricorda lo scrittore, si tratta di un potere che non ha bisogno di esercitare il suo dominio con gli strumenti classici. L’ampio ricorso al termine “fascismo” (in parte figlio di quei tempi), impedisce però a Pasolini di cogliere la natura più profonda del regime: non tanto e non solo strumento di dominio retrogrado, ma anche moderna – benché autoritaria – macchina di consenso per l’indottrinamento delle masse.

Negli ultimi scritti, l’avvento della tecnologia e il suo inserimento nel mercato rappresentano per Pasolini la prima vera rivoluzione di destra, imputando alla sinistra di non sapere leggere la realtà.

Dentro questa visione estremista, peraltro non nuova poiché preceduta da L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse e dalla visione apocalittica della scuola di Francoforte, si nascondono molte microanalisi nelle quali Pasolini eccelle. Fu lo stesso autore, in un incontro televisivo del 1971 condotto da Enzo Biagi, a sostenere che egli ormai non lottava più per verità totali, ma per verità parziali.

Nell’analisi dei piccoli segni dei tempi (i capelli lunghi, lo spot dei jeans) Pasolini è scrittore, giornalista e cineasta assieme e le sue parole diventano nitide sequenze visive. E’ moderno e non scontato a leggere, nei tempi e nei luoghi, l’evoluzione dei simboli: i capelli lunghi negli uomini, quando appaiono, a metà degli anni Sessanta, non hanno bisogno di parole, sono un’icona dissenziente, un non violento anticorpo della civiltà, ma il ’68 trasforma quelle icone silenti in una verbosità dilagante fino a che il simbolo della lunga chioma viene usato dai fascisti per infiltrarsi nelle file dei movimenti anarchici. In questo atto Pasolini vede l’usura del simbolo e la sua perdita di significato.

Altrettanto acuta l’analisi dello spot Levis: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, vista come appropriazione laica del messaggio religioso e al tempo stesso come segno di declino irreversibile della Chiesa nella sua tradizionale capacità di controllo.

Numerose le verità parziali, sostenute da Pasolini, che hanno resistito al tempo: la nuova e più apolitica laicità della società italiana – che porta alla vittoria del referendum sul divorzio nel 1974 (prevista dallo scrittore) – non è tanto figlia dell’antifascismo quanto di un costume secolarizzato; la forte propensione edonistica (un piacere sterile), più volte evocata, caratterizzerà tutto il decennio degli anni Ottanta (e con poche varianti arriva fino a noi), così come non sono affatto banali le sue annotazioni sulla deriva violenta che fuoriesce dai movimenti dell’estrema sinistra (che Pasolini non ama) quando nota che la violenza, se mitizzata, può portare all’azione.

Pasolini non propone architetture politiche, si definisce anarchico, religioso, si oppone alle diseguaglianze sociali, appoggerà sui referendum le posizioni del Partito radicale.

Pasolini è un pensatore (non soltanto un poeta) che ha suscitato vasti dissensi, ma la sua opera e le sue riflessioni hanno resistito al tempo: non si può leggere il ’68, e i primi anni Settanta, senza fare i conti con lui. Ci ha aiutato a porci delle domande, anche se ci siamo dati risposte diverse dalle sue.