Cultura

“Pensavo fosse amore invece era Matteo Renzi”: le vignette di Natangelo sulle avventure del Palazzo (e del Fatto)

Non si tratta di una raccolta di vignette (edita da Magic Press), ma di una seduta di autocoscienza politica, il tentativo di dare un senso alla mediocrità alle vicende romane di Palazzo Chigi e dintorni. E l'autore, oltre a essere giornalista, è anche un narratore che sta trovando il passo del racconto lungo

Ogni pomeriggio, Mario Natangelo si infila delle grosse cuffie, si isola dal resto della redazione del Fatto e si concentra. O almeno così sembra. La verità è che, nella sua testa, inizia un dialogo con i protagonisti delle sue vignette. Quindi Matteo Renzi, quasi tutti i giorni. I due litigano, si insultano, poi a un certo punto Natangelo sogghigna perché sa che vincerà lui. E punisce l’invadenza del premier, che continua a sgomitare per occupargli il cervello, con una vignetta. Cattivissima perché – c’è da scommetterci – anche Renzi è costretto a ridere quando la legge.

Una volta finito il duello con il bullo toscano, Natangelo viene nell’ufficio centrale del giornale a sottoporci le bozze delle sue vignette. A parte alcune che scartiamo – ogni tanto fa il furbo e plagia se stesso (Giampaolo Pansa dice che è lecito) – a volte scegliere è così difficile che ne pubblichiamo più di una. 

Natangelo è così bravo perché dei personaggi delle sue vignette non si libera mai, anche quando posa il pennarello e spegne il pc, continuano a perseguitarlo, di solito solo nella sua testa. L’unico modo che ha per affrontare Renzi (e, prima di lui, Giorgio Napolitano) è entrare nelle sue stesse vignette e affrontarlo. Il risultato di questo corpo a corpo è “Pensavo fosse amore invece era Matteo Renzi”, il volume che Natangelo pubblica per Magic Press. Non una raccolta di vignette, ma di una seduta di autocoscienza politica, il tentativo di dare un senso alla mediocrità delle avventure del Palazzo, senza esserne travolto (una fidanzata renziana complica tutto) e di farsene beffa. Seriamente, però.

Dei personaggi delle sue vignette non si libera mai, anche quando posa il pennarello e spegne il pc, continuano a perseguitarlo, di solito solo nella sua testa

Natangelo non cerca aforismi senza tempo, epigrammi cinici, come si limitano a fare tanti suoi colleghi, ripetendo per decenni uno schema sempre uguale. In fondo Mario è un giornalista con tanto di tesserino che si esprime per vignette, fa (anche) informazione, non solo comicità e satira. Ma è anche un narratore che sta trovando il passo del racconto lungo. Nei reportage che realizza per il Fatto – dal meeting di Comunione e liberazione al confine dell’Ungheria nella crisi dei migranti – ai libri. Anche in un lavoro precedente, su Giorgio Napolitano, Natangelo aveva messo al centro la politica. Ma in “Pensavo fosse amore..” è ancora più chiaro il suo approccio e molto più matura la padronanza dei meccanismi narrativi. Per parafrasare Giorgio Gaber, a Natangelo non interessa la politica “in sé”, ma “la politica in me”.

Per parafrasare Giorgio Gaber, all’autore non interessa la politica “in sé”, ma “la politica in me”

Natangelo non è Sergio Staino o Altan. Il suo libro sulla politica non parla, in ultima analisi, davvero di politica. La usa come uno sfondo o un linguaggio di cui tutti conosciamo i codici, i personaggi, i tic. Trasformare storie individuali in racconti universali è quello che fa la letteratura. Natangelo ottiene lo stesso risultato seguendo il percorso inverso: in “Pensavo fosse amore…” usa Renzi, Napolitano, la cronaca, la vita di redazione con il direttore Marco Travaglio, insomma, il nostro vissuto collettivo, per far emergere la sua storia personale, e così renderla – per contrasto – anch’essa condivisa, comune.

In anni che non sono più di individualismo ma semplicemente di solitudine, neppure la tv è rimasta a creare il sostrato di un’identità popolare diffusa, a darci un argomento di conversazione al mattino. Il web spinge a creare confortevoli nicchie di isolamento. Non ci restano che il calcio e la politica, come terreno condiviso. Anche Zerocalcare e Gipi, i due giganti del fumetto italiano che con ironia Natangelo evoca nel suo libro (“pensavo che Zerocalcare fosse il tuo pseudonimo”, dice il Renzi nella testa di Nat), hanno cercato di costruire un legame con i propri lettori basato sulla ricerca di qualcosa di sentito da tutti, o almeno da molti, un’ancora a cui appendere la narrazione. Gipi creando una provincia astratta, nessun luogo e dunque tutti i luoghi, anonima come quasi tutta l’Italia di città. Zerocalcare usa una leva più generazionale, i lettori entrano in sintonia perché hanno le stesse esperienze di consumo: il Game Boy, le merendine, le serie tv scaricate da Torrent.

 Natangelo ha intuito che la politica “personale” – fatta di frammenti di talk show rivisti sul web, di canzoni del senatore Razzi, di hashtag indignati – può essere un collante tra i suoi lettori

 

Natangelo ha intuito invece che anche la politica può svolgere una analoga funzione di collante. Ma non la politica vera, quella delle sezioni, delle feste dell’Unità, dei comizi. No, quella politica personale che è fatta di frammenti di talk show rivisti sul web, di canzoni del senatore Razzi, di hashtag indignati, di vaghe sensazioni e slogan ripetuti, come quelli che nel libro Nat si vede infliggere dalla fidanzata (vero centro del libro, in una funzione anche catartica). E allora Natangelo la usa, per raccontare una relazione entusiasmante e caduca, i suoi trent’anni incerti e precari come sono per tutti noi trentenni, anche per quelli che non hanno un contratto precario, l’assuefazione al peggio che toglie anche la capacità di indignarsi, soprattutto a chi si guadagna da vivere raccontando, ogni giorno, nuovi scandali ed effimere baruffe parlamentari. Il titolo va preso sul serio, ma ribaltato: pensavamo fosse Matteo Renzi, l’argomento di questo libro, invece era amore.