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Gerusalemme, dalla battaglia politica a quella dei simboli

Alcune volte le tragedie del mondo servono a farci scordare altre tragedie e a farci scoprire, se ce ne fosse bisogno, l’inutilità di tanti discorsi o ancora più grave la fragilità di alcune costruzioni politiche. L’Europa ad esempio che non solo non riesce ad affrontare il problema dei rifugiati con coerenza e consequenzialità ai valori di umanità, democrazia, di movimento di cui parla e straparla. Non solo, ma riesce a digerire nel suo ventre di balena gente come Orban. La fortezza Europa è destinata ad essere espugnata, perché la storia sembra volersi vendicare degli errori accumulati nel tempo. E’ un tempo di mezzo nel quale le certezze non appartengono più alle nuove generazioni che a loro volta sono alla ricerca di nuovi valori, di identificarsi con progetti che rimettono in discussione le vecchie ideologie. Ma non voglio rimanere sul generico e desidero proporre ai lettori di questo post una riflessione su un annoso problema che ha appassionato intere generazioni e per certi versi continuerà a farlo in forme diverse: Gerusalemme, dove ebrei e palestinesi tornano a scontrarsi.

I primi dovrebbero essere più impegnati a festeggiare il loro Capodanno e l’entrata dell’anno 5776, i secondi dovrebbero preoccuparsi della definitiva sconfitta e del lento insabbiamento della loro causa nazionale. Che i primi non siano così contenti di questo nuovo anno, ce lo dicono i giornali israeliani a colpi di sondaggi sull’accordo Usa-Iran, che sembra aver risvegliato l’Armaggeddon. Mai come oggi gli israeliani si interrogano non tanto su se l’Iran rappresenti o meno una minaccia nucleare, quanto se la lobby ebraica a New York stia perdendo inesorabilmente terreno, preannunciando un nuovo millennio in cui gli Stati Uniti potrebbero progressivamente allontanarsi sempre di più dalle sorti di Israele (e dall’obbligo di proteggerlo).

I secondi, invece – i palestinesi – hanno problemi più pressanti ed urgenti: la loro leadership è in bancarotta da anni, ma oggi anche l’ideologia nazionale sembra avviarsi verso un lento declino fino all’eclissi. I palestinesi più giovani, che ancora qualche anno fa avevano animato delle marce popolari per l’unità nazionale (Il movimento del 15 marzo, nell’ormai lontano 2011) credendo ad una possibile collaborazione tra Hamas e Fatah e ad una rinascita dell’Olp, ora si gettano tra le braccia di movimenti neoislamici e millenaristi come Hizb u Tahrir (Partito della liberazione, fondato nel 1952 da un giurista di diritto islamico, Takieddine Nabhani, vicino ai Fratelli Musulmani) e il “Movimento islamico nelle terre occupate del 1948” di Raed Salah, che vuole l’istituzione di uno stato islamico in Palestina. La popolarità crescente di entrambi risente del segno dei tempi: di una caduta libera dell’ideologia nazionalista e della sfiducia popolare in una riforma dell’Olp e dell’unità tra le forze politiche palestinesi, di uno scoraggiamento diffuso dopo l’ultima guerra a Gaza, e di un’impossibilità, mentale e materiale, di guardare oltre lo stato attuale delle cose.

Allora, i palestinesi preferiscono gettarsi nel millenarismo dal richiamo religioso islamico, di cui l’attuale battaglia per al-Aqsa fa integralmente parte: combattendo per la Spianata delle moschee, è come se i palestinesi si impegnassero direttamente in una battaglia dagli echi escatologici e simbolici evidenti, affrontando gli Israeliani sul terreno dei simboli sacri, evitando così di pensare alla guerra che non riescono a vincere e nemmeno più a portare avanti quella per la liberazione di un territorio fisico che avrebbe dovuto un giorno diventare il loro Stato.

Gerusalemme, dunque, e gli scontri che vi si registrano puntualmente nel recinto sacro, rappresentano un surrogato dello scontro vero, quello le cui sorti sono già state decise. Così da un lato, quello israeliano, vi sono personaggi come Rabbi Yehuda Glick, che dopo esser quasi stato ucciso in un attentato, lo scorso ottobre 2014, è tornato alla ribalta con il suo movimento per la libertà di preghiera per gli ebrei sulla Montagna del Tempio, spacciandosi per un attivista dei diritti umani e della libertà religiosa; dall’altro, quello palestinese, la risposta diventa quella animata da Raed Salah e la sua campagna “Al-Aqsa in pericolo”, che chiama a raccolta tutti i giovani che possano difendere la moschea e con essa, la sacralità di Gerusalemme. Due sacralità opposte che si scontrano violentemente su uno sfondo di disperazione condivisa: quella di chi non crede più alla politica per cambiare le cose e quella di chi pensa che credenze millenaristiche per anni sopite possano tornare ad essere una guida ed un ideale per il mondo di oggi.