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Pakistan, incendio in fabbrica: chiesto risarcimento a società italiana per i 260 morti

Non c’è solo il caso del Rana Plaza, la fabbrica tessile in Bangladesh crollata nel 2013 facendo 1.134 morti. Un anno prima, un incendio devastò lo stabilimento Ali Enterprises di Baldia, in Pakistan: nell’incidente persero la vita 260 operai. Ora, i familiari delle vittime chiedono un risarcimento milionario a Rina Services, la società di certificazione italiana che riconobbe lo stabile come sicuro. Nella speranza che la vicenda non finisca come il caso bengalese: i marchi occidentali chiamati a pagare per i lavoratori morti, tra i quali l’italiana Benetton, hanno contribuito tardivamente e con cifre ritenute inadeguate dalle associazioni.

Ora, per ricostruire la tragedia avvenuta in Pakistan, bisogna tornare all’11 settembre del 2012. Nel complesso industriale di Baldia, nella regione di Karachi, aveva sede la Ali Enterprises, azienda tessile che lavorava soprattutto per la tedesca KiK e contava oltre mille dipendenti. La fabbrica prese fuoco a causa di un corto circuito e 260 lavoratori rimasero intrappolati nella struttura, morendo tra le fiamme. Ma solo venti giorni prima dell’incendio, il 20 agosto, la società di certificazione Rina Services, con sede a Genova, aveva rilasciato un certificato SA8000, affermando che la fabbrica rispettava i criteri di responsabilità sociale. Insomma, secondo l’azienda italiana, nello stabilimento pakistano si rispettavano i diritti umani e dei lavoratori, non si sfruttavano minori e, soprattutto, erano garantite sicurezza e salubrità del posto di lavoro.

Eppure, meno di un mese dopo, la strage. All’indomani dell’incidente, la tedesca KiK ha firmato un memorandum impegnandosi a risarcire con un milione di dollari i familiari delle vittime. La somma è stata versata, ma una nota della campagna Abiti puliti ricorda come la società si sia “sottratta agli altri obblighi previsti dall’accordo di impegnarsi nel negoziato per determinare il risarcimento di lungo periodo per le vittime. A cui si affianca l’obbligo di versare 250mila dollari per rinforzare il lavoro di monitoraggio degli standard sociali, anche questo mai onorato”.

E ora, i familiari delle vittime presentano il conto anche a Rina Services. Ad avanzare la richiesta di un risarcimento sono 497 parenti di 170 morti nell’incendio, che sono legati al sindacato pakistano National Trade Union Federation (Ntuf) e all’Associazione dei danneggiati dall’incendio della fabbrica Baldia. In Italia, la vicenda è seguita dagli avvocati Stefano Bertone e Marco Bona di Torino, che hanno depositato un’istanza di mediazione: il primo incontro tra le parti è previsto per il 30 settembre a Genova. “Chiederemo un risarcimento di svariati milioni di euro – spiega l’avvocato Bona – Per adesso, è difficile quantificare più precisamente l’entità della richiesta. Ma ci impegniamo a fare applicare gli standard italiani”.

Da parte sua, l’azienda parla di “un’azione infondata e pretestuosa che vuole coinvolgere Rina Services in fatti e situazioni nei quali non ha alcuna responsabilità”. Per il team di legali, invece, le responsabilità ci sono, eccome: secondo gli avvocati, la società ha fornito una certificazione positiva quando invece le condizioni della fabbrica erano tutt’altro che sicure. “La palazzina, ove divampò l’incendio – si legge nelle motivazioni dell’istanza di mediazione – era vetusta e fatiscente, contraddistinta, già da diversi anni prima della tragedia, da gravissime carenze di sicurezza, tra le quali le seguenti: assenza totale di uscite/scale di sicurezza; massiccia presenza di sostanze chimiche ed altro materiale altamente infiammabile; assenza di sistemi antincendio; non conformità e gravi difetti dell’impianto elettrico; non conformità dell’ammezzato”.

In conclusione, gli avvocati accusano Rina Services di avere “concesso ed emesso il certificato in questione in assenza dei requisiti minimi, senza imporre l’adeguamento agli standard di sicurezza, senza segnalare alle autorità pakistane competenti ed alla stessa Ali Enterprises le gravi e manifeste violazioni che mettevano a serio repentaglio la vita di numerosi lavoratori”. Da qui, le responsabilità attribuite alla società: “Rina fu nella concreta possibilità di promuovere ed imporre l’adozione di misure preventive che avrebbero scongiurato lo sviluppo dell’incendio o, comunque, il suo repentino propagarsi all’interno dello stabilimento con effetti così devastanti“.