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Migranti, se l’Europa risponde a Renzi: ‘fatti un selfie’

Mentre cresce l’emergenza umanitaria dell’esodo biblico degli ultimi del mondo verso le nostre coste, risulta evidente che l’Italia non è in grado di farcela da sola. Per carenza di risorse, limiti organizzativi, macroscopica impreparazione da parte di chi è preposto ad anticipare i problemi in chiave di governo.

Nel bel mezzo della catastrofe cresce lo sconforto innanzi all’evidenziarsi di alcune verità che non avremmo voluto scoprire. Il nostro premier – che bulleggia nella politica nazionale forte di rendite posizionali e della pochezza certificata dei competitori – a livello internazionale non conta un bel niente.

I promoter di Matteo Renzi possono somministrarci le istantanee (tagliate o ritoccate) dell’ilare giovanotto mentre discetta davanti a un presidente Obama che ascolta in religioso silenzio; o dello stesso presidente Usa ripreso di spalle mentre lo abbraccia insieme ad Angela Merkel su una panchina di Garmish Partenkirchen. Resta il fatto che quando il ragazzone, sempre con “quell’espressione allegra da italiano in gita” (come il Gino Bartali di Paolo Conte), implora aiuti dai partner europei, la risposta è una e una soltanto: “stai sereno e fatti un selfie”. Variazione postmoderna del “ragazzo, spazzola!” indirizzato allo sciuscià di turno, il lustrascarpe di quei tempi.

Del resto lo dice persino Eugenio Scalfari: nessuno è riuscito a capire che cosa sia servito il tanto strombazzato semestre italiano di presidenza dell’Unione europea.

Seconda verità sgradevole: possiamo inveire contro la fiumana di poveracci in esodo attraverso il Mediterraneo, donne e bambini compresi (dov’è finita la retorica del “italiani, brava gente”?), fatto sta che la situazione è stata creata dalla clamorosa insipienza dell’Occidente. Prima con le guerre americane in Medio Oriente, poi quelle europee in terra d’Africa. Sempre con il retropensiero di presidiare vie del petrolio e relativi campi estrattivi. In sostanza una poderosa serie di calci in termitai da cui sono rapidamente fuoriusciti i flussi inarrestabili di quanti abitavano quelle sedi sovvertite. Che – guarda caso – si sono rivelati anche incontrollabili, oltre che gravidi di pericoli imprevedibili. Del resto l’inettitudine occidentale nell’affrontare i problemi del Terzo Mondo è una costante; almeno dalla conferenza del Cairo 1921, dove si creò una sistemazione dell’area ad altissima instabilità: non solo consegnando la gestione della rendita petrolifera arabica all’oscurantista dinastia haschemita in funzione di gendarme (oltre che sceriffo della Mecca), ma anche creando quello Stato-Golem che si è rivelato essere l’Iraq; una polveriera a cielo aperto che stipava in un unico contenitore etnie tra loro irriducibilmente ostili.

Ma c’è un’ultima considerazione di verità inconfessata/inconfessabile che l’odierna vicenda ci sbatte impietosamente in faccia; subito in quanto italiani, poi europei.

Gli arrivi di quegli uomini e quelle donne diversi da noi solo per due o tre tonalità più scure della pelle sono resi ancora più drammatici perché – al di là delle chiacchiere – da molto tempo le nostre società campano su rendite accumulate nel passato e in via di assottigliamento. In altre parole, l’Italia e anche l’Europa hanno ormai smarrito la via dello sviluppo.

Possiamo consolarci con statistiche fasulle o con diversivi mistificatori sulle presunte meraviglie dell’hi-tech. In effetti il declino industriale è la condizione eminente in un continente avvizzito. Che le mitologie del piccolo e bello italiano, la preminenza meccanica tedesca, l’alta velocità francese o la finanziarizzazione inglese ormai non nascondono più. Siamo ai margini. Solo un forte ritorno attraverso politiche di sviluppo all’economia materiale potrebbe farci riguadagnare posizioni. E le energie giovani che ci giungono da oltremare diventerebbero una manna dal cielo. Ma noi siamo solo capaci di presidiare il nostro vizzo orticello. Magari imbracciando il fucile dell’ottusità.