Cultura

Libri: dentro le traiettorie di Bianchi, la scrittura del corpo di Palomba, la lampada di Curtis

bianchi-poesieC’era una bottiglia di spumante bevuta/nella fontana a fianco del binario/Per dissetare gli ultimi/i detriti nella gioia/di un addio“. Non mi occupo spesso di poesia, ma è difficile non rimanere colpiti dalla suggestiva raccolta La metà del letto di Matteo Bianchi (Barbera Editore). Un corpus di cento intense poesie, orchestrate in otto sezioni con una presentazione di Anna Maria Carpi e un’introduzione di Roberto Pazzi. Si tratta di liriche dal linguaggio contemporaneo e immediato, capaci di arrivare all’anima del lettore con una forza inconsueta e di scavare nei sentimenti più profondi.

Come scrive Anna Maria Carpi: “Il titolo della raccolta allude chiaramente all’amore. È l’amore, non solo ma in prima istanza, che nella raccolta cerca un interlocutore: un amore che c’è o c’è stato, che anche parla, con tanto di virgolette, ma perlopiù in modo sfuggente”. “Scivolo ed elevazione, sono queste le traiettorie inesplorate ed esaltanti della raccolta di Matteo Bianchi, che nel panorama della poesia italiana, ‘ora’, è un episodio da non perdere di vista, ma da leggere, da pedinare. Non tanto per la sua età anagrafica (è del 1987, un pesce ancora invernale), ma per quell”ora’ che riconosce a Bianchi la capacità di far allamare alla poesia non la memoria, neanche il presente, ma il suo stare al mondo quotidiano. Il fragmento. Non v’è fragmento in questa collezione in cui l’autore non ascolti, adocchi e branchi, scippi, divori, ingerisca, ami, scalci o abbracci il suo sentire dentro e intorno. Cioè il sentimento, che lui assorbe e dice in forma fisica e intellettuale, non importa. In un singulto o in un fracasso, perché sua è l’età panica della pulsione, così che ogni ragione o istinto abbia un sapore o un rumore.”

L’ultima sezione, l’ottava, Il profumo delle mele, forse la più suggestiva e commovente, è dedicata ai resti del terremoto dell’Emilia. E alla genuinità della terra dell’autore, ferrarese DOC, compreso il suo carattere dimesso e malinconico.

Dopo qualche ora mi sveglio masticando l’aria e il bario al gusto di gomma invecchiata di dieci anni. Guardo fuori dalla finestra, l’occhio destro mezzo chiuso, un paio di operai alle prese con un mucchio di cemento e una fossa. Osservo lo spettacolo di desolazione intorno a me: letto disfatto da circa una settimana, pila di piatti nel lavabo così alta da assumere le sembianze della torre di un castello diroccato; sulla scrivania un mucchio di carta strapazzata nel quale fogli bianchi e tentativi abortiti di articoli si mischiano al punto che sembra impossibile dividere gli uni dagli altri. Bisogna avere il caos dentro per partorire una stella danzante, diceva il filosofo.

Un romanzo carnale, capace di descrivere la degenerazione dell’epoca contemporanea in una città eterna come Roma, ormai abbruttita dal rigurgito della globalizzazione. Una prosa asciutta, diretta, senza fronzoli. Si tratta de Homo homini virus di Ilaria Palomba (Meridiano Zero), la storia di un giovane pugliese arrivato nella capitale con il sogno quasi fanciullesco di diventare una grande firma del giornalismo che si occupa di musica e si ritroverà nel vortice di un mondo a lui sconosciuto, quello della body art, un mondo che inizialmente disprezza, ma che imparerà ad amare dopo l’incontro con una selvaggia performer che usa il proprio sangue come inchiostro.

Che sia poi questo il baratro, il famoso abisso di cui parlava Nietzsche? Un sommesso ritorno in luoghi svuotati di significato. Come se a ogni ritorno fosse affiancato un senso di straniamento tale da annullare ogni possibilità di rifugio. Questo era stare con loro. Un’incognita. Un salto nel vuoto. Ogni volta una prova. Mentre cammino verso un altrove che non so neanch’io dove sia, mentre seguo Kurt sulla Colombo e qualche raggio di sole sfugge alle nuvole inondando il lato sinistro del mio viso, mentre sono qui a pensare al se avessi e se non avessi, mi arriva chiara e lampante la visione del mio riscatto. Io calpesto a morte tutti i sentieri e li mando in rovina, diceva il filosofo.

Quando l’arte è strumentalizzata dai media, cadiamo in un mondo infernale in cui non esistono amici e in cui ognuno diviene virus per l’altro. Il ritratto esasperato di un contesto sociale che rovina. L’anelito a un affrancamento emozionale e sensuale da tabù e infrastrutture educative strette come un vestito dell’infanzia. Una storia di passioni ossessive, cinici tradimenti, taglienti affondi ed elettiva complicità.

Infine voglio segnalare un libro originale che si discosta dalla narrativa contemporanea come siamo abituati a considerarla. La lampada del grilletto, di Gervaso Curtis (Edizioni Opposto). “Ricordo perfettamente il giorno in cui sono entrato in una libreria del centro e, per caso, ho iniziato a leggere Rimbaud. Da quel giorno è cambiato il mio modo di leggere e scrivere ed è per questo che nelle prime pagine de La lampada del grilletto leggerete alcuni estratti, evidenziati tra virgolette all’interno del testo, di Una stagione all’inferno.” Lasciate che sia la mente a guidarvi nella lettura di questo libro. Fate in modo che gli occhi pronuncino le parole più velocemente della lingua e che tutti i sensi si spostino al di là del tempo percepito. Non esiste altro modo per leggere La lampada del grilletto di Gervaso Curtis, eteronimo di Giuseppe Vicinanza, autore del libro che dà al protagonista la responsabilità di raccontare l’eterno travaglio dello spirito.