Cronaca

Naufragio migranti: il lungo viaggio senza valigie

Ci capita ormai ciclicamente di parlare delle tragedie nel Mediterraneo. Il numero dei morti alza il tono dell’indignazione, ma poi tutto finisce quando i riflettori si spengono. Eppure era tutto scritto e prevedibile. La cosa che non facciamo è cercare di metterci nei panni dell’altro. Non abbiamo la voglia di entrare nelle storie di disperazione di quanti sbarcano, o muoiono, che quotidianamente transitano dai nostri divani come immagini pronte a svanire e senza mai accomodarsi neanche per un attimo.

Tema scomodo che attira compassione e lacrime temporanee. Domani daremo uno spicciolo in più quando incontreremo qualcuno per strada. L’Europa non c’è, tutto grava sulle nostre spalle. Ma a quei poveri immigrati, pensate che gliene importi qualcosa di tutto ciò? Pensate davvero che la morte, la terraferma, il centro d’accoglienza interessi minimamente i loro pensieri? Ma non li osservate mentre attraversano le passerelle e salgono sui pullman? Vi sembra abbiano la faccia di coloro i quali sono felici di aver raggiunto un risultato? La meta agognata, la terra promessa? Io qualcuno l’ho visto e gli ho letto negli occhi solo la morte.

Una disperata voglia di interpretare la morte in modo umano, continuando un viaggio che assicura solo sofferenze e distrazione rispetto alla morte che è dentro di loro, impiantata ormai dal giorno in cui hanno lasciato la loro casa. Proviamo qualche volta a farlo metaforicamente con loro questo viaggio. Di solito i giovani sono spinti da genitori che gli hanno fornito i soldi per il viaggio per evitare che venissero massacrati in una qualsiasi carneficina del dittatore di turno. Le donne, con i loro figli, hanno lasciato villaggi con la morte dei loro uomini negli occhi.

Sembra più una processione del ‘morire altrove’ che le spinge una volta sopravvissute a viaggi incredibili, con quel passo lento e rassegnato con la speranza che vivano almeno i loro figli, i loro neonati. Ignoriamo da dove arrivino e quali gironi infernali abbiano attraversato, ma guardandoli negli occhi ci accorgiamo di quanto siano impregnati di morte. Dieci, cento, mille… quanti sono finiti in mare? I testimoni sopravvissuti ci danno report pronti alla cancellazione. L’inferno non ha numeri, solo pene. Noi, che al ritorno da un viaggio in un bus stracolmo in città rientrando in casa affermiamo: stamattina è stato un inferno. Ma riusciamo ad immaginare cosa significhi trascorrere ore ed ore in mare stipati in un barcone? La morte che già li attendeva sulle spiagge ed i porti di partenza li ha accompagnati per mare e poi nei bus e ancora nei centri. Sì, la morte dentro, quella che cerca l’anima e contro la quale si battono piccoli e sparuti sprazzi di vita pronti ad essere ingoiati da qualunque attimo in questa infinita odissea.

Coloro i quali provano fastidio nell’affrontare questo tema o liquidano le cose in modo semplice, sappiano che non è con la vita che ci confrontiamo, ma con la morte di donne, uomini, bambini esattamente come noi e che per caso sono esistiti in un luogo maledetto come pure a noi poteva capitare. Dobbiamo anche avere la consapevolezza, sempre, che questi nostri fratelli hanno già messo in conto la morte, preferendola al massacro o al dolore di guardare quella dei propri cari. Fuggono da essa per portarla dentro… così, perché obbligati dall’istinto alla vita. Ma la guerra in tutte le sue più orripilanti forme spesso ci costringe a non distinguere l’una dall’altra e solo il viaggio disegna un altrove senza tempo e spazio, un buco nero nel quale infilarsi senza valigie.