Televisione

‘1992 – La serie’ e l’Aids raccontato nel 2015 con gli stereotipi anni ‘90

Photocall della serie Tv Sky "1992"Non mi sta entusiasmando ‘1992‘, la fiction su “Mani pulite” trasmessa in queste settimane da Sky. Certo, la mia critica ha davvero poca importanza; importante è invece il fatto che, per quello che ne so, il serial è seguito da migliaia di persone, che di quel prodotto colgono le ‘verità’, i messaggi e le rappresentazioni.

Ebbene, trovo abbastanza sfortunata la costruzione narrativa e scenografica fatta attorno all’ispettore di Polizia Luca Pastore, interpretato da Domenico Diele, sul lavoro di attore del quale non ho nulla di cui eccepire. Il personaggio, invece, è stato scritto davvero male dagli sceneggiatori. Egli rappresenta un operatore della Polizia giudiziaria, al servizio di Antonio Di Pietro, malato di Aids e per questo dipinto, in alcune scene, estremamente sofferente.

Nella finzione cinematografica Diele interpreta un agente che si è ammalato dopo una trasfusione effettuata con sangue infetto. La diffusione di questo ‘prodotto Hiv+’ è stata causata dai traffici e dagli affari illegali di un politico corrotto, che senza scrupoli intendeva arricchirsi sulla commercializzazione di queste sacche infette. L’ispettore Pagano conosce questi retroscena, per cui la sua attività a fianco di Di Pietro – bestianera della malapolitica di allora – risulta particolarmente incisiva e svolta con passione.

Nulla da dire relativamente a questi aspetti del racconto, ma perché inserire ‘l’elemento Aids’ e decidere poi di occuparsene senza particolare cura e attenzione per gli stilemi scelti nel raccontarlo? Osservando le sofferenze e gli handicap ai quali è costretto l’ispettore Pastore, pare si sia scelto di parlare di sieropositività attraverso gli stereotipi più diffusi negli anni ’90. Il malato è presentato – durante le fasi più acute della malattia – come un relitto o un reietto ai margini della società, impossibilitato a convivere con quel male che è visto come una “croce”, quasi impossibile da sopportare.

Diffondere un messaggio del genere nel 2015 è, secondo me che sono sieropositiva da decenni, estremamente controproducente. Non serve ai malati di Hiv – quelli reali, non quelli che lo fanno come bravi attori cinematografici – perché necessariamente con la malattia ci devono convivere; non serve alla loro vita quotidiana, alle loro attività lavorative e alle loro professioni, che possono benissimo svolgere senza problemi; e non serve ai loro rapporti interpersonali: non serve a nulla mentre amano, mentre si baciano o fanno sesso.

A volte il povero Pastore non sembra suscitare altro che pena al telespettatore. Anche questo è un sentimento che non serve a nulla ad un malato di Aids. Del resto cos’altro potrebbe ispirare l’immagine di questo ispettore angosciato mentre, allo specchio, cerca con foga l’apparizione di qualche piaga o pustola che dimostri il conclamarsi della malattia? Fosse reale un simile stato d’animo, come potrebbe una persona svolgere un’attività così delicata come quella di ispettore di polizia?

Invece un reale sieropositivo la pratica ottimamente; ma appunto quel sieropositivo che col tempo – e con una visione più matura della malattia – abbiamo imparato a conoscere; ovvero quella persona simile a tutte le altre che col progresso della farmacologia e con forti dosi di buona volontà ha quasi sconfitto il virus, che rimane un’entità relegata nel suo corpo.

L’Aids è ben lungi dall’essere debellato, ma non è la peste descritta negli anni ’90 e il povero ispettore Luca Pastore non è un appestato… Per favore, cari sceneggiatori, descrivete la sieropositività in una maniera più moderna!