Cultura

Il silenzio dipinto: Antonio Lòpez Garcìa

Circa tre anni fa andai a vedere a Vicenza una mostra sul ritratto e sullo sguardo, (Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti e figure). I quadri esposti, selezionati con grande perizia dal curatore della mostra, Marco Goldin, abbracciavano un vasto arco di tempo. Di quella mostra serbo un ricordo sfocato, ma un quadro mi rimase incredibilmente impresso: Figure in una casa, del pittore spagnolo Antonio Lòpez Garcìa.

Cerco le parole che allora mi suscitò questa tela dal fondo grigio, con due figure più scure sulla soglia di una stanza. Era un quadro che evocava forme disperse della vita, sagome affioravano dal passato, non so se dall’infanzia o dalla giovinezza. Era un preciso tocco di silenzio, come quello che segue, per esempio, i rumori del pranzo domenicale, quando i genitori vanno a riposarsi e ti lasciano lì sola, a giocare sotto il tavolo con il tuo cane. La luce del quadro era la stessa dell’infanzia, polverosa, confusa.

Quando qualche settimana fa ho visto che il museo civico di Palazzo Chiericati a Vicenza (che città incredibilmente vitale, è anche appena iniziato un festival di poesia, di cui darò notizie più precise alla fine del post) accoglieva una mostra personale di Antonio Lòpez Garcìa, sono partita.

Non sono esposte molte opere: una decina di quadri, grandi meravigliosi disegni, alcune sculture. Questa volta però i quadri li ricordo tutti. La cena, per esempio, racconta di una bambina seduta con la madre. La tovaglia bianca, i resti del cibo, una fotografia di bistecca ritagliata e attaccata sulla tela. Lo sguardo della bambina è penetrante, interrogativo. Chiama in causa lo spettatore. Poi Finestra di notte, semplice e inquietante. Ancora una volta mi sembra che questo spagnolo di quasi ottant’anni abbia una capacità incantata di raccontare quello che non si può dire. I suoni sordi di una casa, il respiro sommesso di una madre. Le due viste di Madrid sono tanto vive e precise proprio nel momento in cui, avvicinandosi, ci si accorge che metà del quadro è fatto con pennellate spesse di colore, usate con tale sapienza da risultare perfette nella loro straordinaria, lucida approssimazione. Ma quello che più mi ha colpito in questa mostra sono i grandi disegni dei gabinetti. Meticolosi e strazianti, cessi pubblici o privati, con crepe nei muri e qualche straccio di vita che affiora dal degrado. Sono quadri tristi, in cui sento che il pittore condivide con l’osservatore la malinconia dell’abbandono, lo svanire dei luoghi.

Nel bel catalogo Marco Goldin ci sono molte citazioni tratte da interviste e scritti di Lòpez Garcìa: “Io dipingo perché mi piace. Fin da quando ero molto giovane. Cominciai per questo motivo. Poi però con gli anni viene sviluppandosi una passione, e io ce l’ho per la pittura. (…) C’è una cosa fondamentale per tutti, ed è quello che ci fa dipingere: l’emozione. E questa emozione deve uscir fuori in un modo o nell’altro, se il quadro viene realizzato con una qualità mediamente buona. E’possibile che non ci si arrivi mai pienamente, ma quando ci avviciniamo a questo punto, che ci ha spinti a dipingere, il lavoro spesso non è inutile. Qui troviamo un’emozione indefinita, ed è irrilevante che venga espressa in forme figurative o astratte: non ci vedo nessuna differenza“.

E ancora: “Cercare di capire il mondo fisico è stato in termini molto semplici, ciò che ha portato tanti alla modernità e all’astrazione. Quanto a me mi ha portato a realizzare un tipo di realismo che aveva un senso. Se guardo tutti i miei esercizi di scuola, li trovo corretti, perfino molto ben fatti. Niente di più. Mi fruttavano voti molto buoni, però io stesso non ci vedo quel lampo che si suppone debba avere un’opera d’arte. Era perciò una dimostrazione di abilità e di rispetto per quello che si aveva davanti e per certe forme, però non c’era mistero. Allora sorse in me la passione per la scoperta di questa parte, di questo lato nascosto delle cose, di ciò che non si può nominare e che nessuno ti può spiegare con esattezza. Posso dire che in questo, precisamente, è consistito il mio apprendistato”.

Il mio entusiasmo per la mostra mi ha confermato ancora una volta che bisogna fidarsi della prima impressione. Troppe volte la lasciamo scappare, giudicandola superficiale. Invece dovremmo darle credito, approfondirla e tenerla salda come fosse il filo in grado di portarci fuori dal labirinto delle sensazioni e delle informazioni che ci invadono. Aver scoperto questo pittore, mi rende migliore. Vista la facile rima ecco le notizie sul festival di poesia a Vicenza: dal 21 marzo al 27 maggio: nel programma ho visto nomi della migliore poesia internazionale. Buon viaggio.