Cultura

La ‘Patagonia ribelle’ di Osvaldo Bayer e il ‘Sertão’ in pillole di João Guimarães Rosa

Patagonia-RebeldeQuando ho finito di leggere Patagonia Rebelde di Osvaldo Bayer (pubblicato in Italia da Elèuthera e tradotto da Alberto Prunetti), ho provato quella sorta di genuina emozione, rabbia e soddisfazione che solamente i libri ben riusciti trasmettono al lettore. Si tratta di una storia “antica”, ambientata nell’Argentina degli anni 20, tra gauchos, bandoleros, latifondisti, militari e anarchici, soprattutto anarchici.

Come Operazione Massacro del connazionale Rodolfo Walsh, un altro di quei capolavori di quello che potremmo definire New Journalism, una contro-inchiesta giornalistica che diventa letteratura straordinaria, Patagonia rebelde è stato un libro perseguitato. Negli anni Settanta, in Argentina, l’opera è stata censurata, le copie sequestrate e bruciate. Nonostante il successo della riduzione cinematografica realizzata da Héctor Olivera (Orso d’argento a Berlino nel 1974), la storia è stata poi offuscata dalle “patagonie per turisti” estetizzanti alla Chatwin. I protagonisti delle vicende narrate da Bayer sono invece peones, gauchos dalla pelle tagliata dal vento, bandoleros e sindacalisti anarchici. Ribelli dimenticati di un lungo sciopero insurrezionale che nel 1921 li vide occupare le fattorie dei latifondi patagonici con un’armata stracciona che, sventolando la bandiera della rivolta, tenne in scacco per mesi polizia ed esercito. Tra loro un bandolero italiano noto come El Toscano. Storie drammatiche di ribellione e ideali internazionalisti che Bayer racconta con passione quasi in presa diretta, un libro che, oltre al già citato Operazione massacro di Walsh, mi ha ricordato le opere “storiche” di Paco Ignacio Taibo II, penso soprattutto ad Arcangeli, Senza perdere la tenerezza, Rivoluzionario di passaggio e La lontananza del tesoro, racconti scritti in una modalità tutta latino americana per difendere la storia dalla cattiva memoria dei potenti.

Sono perlopiù chilotes, insieme a qualche spagnolo, russo o tedesco che non vive nella realtà, gente che in genere crede nell’umanità e si perde in disquisizioni tolstoiane o bakuniniane, ma che non sa andare oltre l’iniziativa individuale, non sa come si maneggia un’arma, non sa nulla del movimento delle truppe e di ciò che è fondamentale per trionfare in combattimento: saper condurre le masse, ordinare e pretendere di essere obbediti, fare di ogni soldato un automa, pronto a sparare al proprio padre se viene richiesto. Sapere questo vuol dire essere un militare.

Osvaldo Bayer è nato a Santa Fe nel 1927. Dal 1952 al 1956 ha studiato storia nell’Università di Amburgo e, una volta tornato in Argentina, si è dedicato al giornalismo, a inchieste sulla storia argentina, alla scrittura di copioni cinematografici. Ha lavorato nei quotidiani Noticias Gráficas e Clarín. Durante la presidenza di María Estela Martínez de Perón, controllata dal ministro di ultradestra José López Rega (fondatore dell’organizzazione terrorista di estrema destra nota come Alianza Anticomunista Argentina), Bayer fu più volte minacciato e perseguitato a causa del contenuto delle sue opere. Questo ha motivato il suo esilio a Berlino nel 1975, esilio durato fino alla caduta della dittatura militare nel 1983. Tra i suoi saggi più importanti appaiono, oltre a Patagonia rebelde, Gli anarchici espropriatori, Fútbol argentino, Rebeldía y esperanza e Severino Di Giovanni, un vibrante saggio dedicato all’anarchico illegalista italiano Severino Di Giovanni. Al momento collabora col quotidiano Página 12, fondato dal suo amico scrittore argentino Osvaldo Soriano.

E rimanendo sempre in Sud America è uscito in questi giorni per Del Vecchio Editore Tutameia. Terze storie di João Guimarães Rosa (tradotto per la prima volta in italiano da Virginia Caporali e Roberto Francavilla). Si tratta dell’ultimo testo di Guimarães Rosa pubblicato in vita. Una raccolta di racconti che esaltano le caratteristiche più peculiari e affascinanti della sua scrittura in un genere distante dalle lunghe narrazioni con cui si è soliti identificare l’autore di Grande Sertão. Un’infinità di personaggi e approcci letterari, di immagini, luoghi, percezioni: donne che per raffreddare l’ardore dei compagni somministrano droghe e poi con aria virginale inducono alla lussuria, assassinii, amori e gioie sullo sfondo di miserie e ricchezze che non hanno nulla a che fare con il denaro. E ancora: la regione del Centro-Oeste, il sertão minerario, le fazendas, i piccoli paesi, le grandi fattorie e i loro mandriani. Quaranta racconti brevi e quattro prefazioni “a malapena non narrative” che rendono l’insieme un meccanismo perfetto, in cui tutto è connesso e intriso di senso, dall’indice alle epigrafi, e in cui ogni parola si connette a ogni altra come in una perfetta ragnatela inondata da gocce di pioggia che al sole muta continuamente luminosità e forma.

João Guimarães Rosa è uno degli autori più importanti della letteratura mondiale novecentesca. Nato nel 1908 a Cordisburgo, nello stato di Minas Gerais, nel 1932 prende parte come medico volontario alla Rivoluzione Costituzionalista. Nel 1934 entra nel corpo diplomatico del Brasile, rappresentando il suo Paese in Europa e America Latina. Nel 1951 rientra in Brasile, dove continua a ricoprire rilevanti incarichi istituzionali. La lunga escursione nel Mato Grosso del ’52 lo mette a contatto con il mondo del sertão, che tanta importanza avrà nella sua produzione seguente: Corpo di Ballo, Prime storie, Tutameia, e, soprattutto, Grande Sertão, il suo unico romanzo che, uscito nel 1956, lo consacra come uno dei più grandi scrittori brasiliani del Novecento. Nel 1963 viene eletto membro dell’Academia Brasileira de Letras. Posto che occuperà, però, solo per tre giorni, nel 1967, prima della morte, avvenuta a Rio de Janeiro.