Mondo

Palestina, perché l’adesione al tribunale dell’Aja è diventato un affare di Stato

A partire dal I aprile, la Palestina sarà ufficialmente il 123esimo Stato membro dell’Icc: è stato il Segretario Generale Ban Ki moon a dare ieri l’annuncio; da I aprile, quindi, l’ufficio del pubblico ministero dell’Aja avrà giurisdizione sulle violazioni dei diritti umani a Gaza ed in Cisgiordania. Come dicevamo già nell’altro post, la furiosa reazione del duo Usa-Israele lascia abbastanza sorpresi: entrambi minacciano di sospendere ogni tipo di contributo economico alla Palestina, con una ritorsione che metterebbe in ginocchio una popolazione già allo stremo, continuando a ripetere “l’adesione della Palestina all’Icc è illegittima perché non siamo in presenza di uno Stato sovrano”. Lo ha detto proprio ieri Jen Psaki, portavoce del Segretario di Stato americano che insieme a Tel Aviv minaccia uno tsunami diplomatico.

Certo una domanda andrebbe rivolta ai sostenitori sfegatati dei diritti assoluti di Israele: perché tutta questa attenzione ad un tribunale che nessuno dei due Paesi riconosce? Perché questa ostinazione farcita delle solite ridondanti minacce a sfondo economico, per evitare un giudizio che, nell’improbabile ipotesi che entrambi gli Stati ratificassero lo Statuto di Roma, avrebbe luogo in un’aula di tribunale e con tutte le garanzie riconosciute da un sistema giuridico occidentale del 2015? Fino all’altro ieri, le parole all’indirizzo dell’Aja erano, al massimo di scherno: un tribunale inutile, senza alcun potere, con uno Statuto che limita a tal punto l’esercizio del diritto penale per crimini contro l’umanità, da ridurre la corte ad un costoso giocattolo che male odora di neo-colonialismo mascherato da giustizia universale. Poi, improvvisamente, l’adesione palestinese all’Icc diventa un affare di Stato. Perché?

Una delle ragioni più credibili non risiede nel timore di Washington e Tel Aviv che all’Aja, tra gli imputati, dove abbiamo visto fino ad oggi Kenyatta o Katanga, possano un giorno essere costretti a prendere posto Netanyahu oppure i vertici dell’Idf; ciò che toglie il sonno agli stati maggiori dei due paesi è la rovina in termini di immagine che deriverebbe da un procedimento per crimini contro l’umanità. D’altronde viviamo in un sistema di Stati interdipendenti e quella di Israele è un’economia di mercato che vede nell’Europa un partner chiave: provate ad immaginare Netanyahu, costretto come Omar al Bashir, il dittatore sudanese sul quale pende dal 2007 un mandato di cattura dell’Icc, ad evitare gli aeroporti di ben 123 paesi per timore di essere arrestato ed estradato. Fantascienza, probabilmente ma non sottovalutate quanto uno stato “occidentale” come Israele, viva della reputazione internazionale: l’isolamento forzato sarebbe una rovina.

Sull’altro versante, la Palestina non sta sbagliando una mossa: la ratifica dello Statuto di Roma significa che la futura indagine sull’operazione “Margine Protettivo” riguarderà tutti gli attori in campo, inclusi gli uomini di Fatah e di Hamas: i vertici palestinesi, insomma, accettano uno scrutinio per crimini contro l’umanità consapevoli del rischio di finire a loro volta alla sbarra. Lascio decidere a voi che leggete se è più morale un processo ad armi pari o una guerra ad armi impari oppure se è più morale giocare con le stesse regole o boicottare il gioco di altri (a cui si è scelto di non prendere parte).

→  Sostieni l’informazione libera: Abbonati rinnova il tuo abbonamento al Fatto Quotidiano