Cultura

Musica classica, orfani di Karajan tra luci ed ombre

Avevo 16 anni quando il mio mito di ascoltatore adolescente, Herbert von Karajan, morì: era il 1989. Rimasi stupito ed interdetto per parecchi minuti perché più di chiunque, forse, lo ritenevo immortale. Poi iniziai ad allargare le mie conoscenze della discografia storica e piano piano, ma neanche poi tanto, i dischi di HvK divennero sempre meno numerosi sui miei scaffali al punto che, quando passai ai cd, per anni non ne comprai affatto.

Poi per fortuna venne il momento del ripensamento critico, e iniziai a riascoltarlo, meditando a poco a poco molte opere dirette dal maestro di Salisburgo, sceverando ciò che era propaganda di mercato, o idolatria un po’ vana, dalla vera genialità dell’artista che più di ogni altro ha influenzato la musica d’arte, il suo mercato e la sua ricezione nella seconda metà del Novecento. Tutte le compagnie per cui il maestro incise hanno rispolverato tutte, o quasi le opere nei loro archivi, materiale per un provvisorio bilancio non manca davvero.

Confesso che alcuni dischi li ascolto ancora con notevole imbarazzo, tant’è evidente la voglia nazional-popolare di compiacere l’ascoltatore poco addentro alle ‘secrete cose’ e di arrivare al successo di massa, altri invece lasciano ancora a bocca aperta per la maestria e l’acume musicale che vi è riversato. Tutti contrasti che sono inerenti a quella grande personalità, attirata dalla magia del suono e dal potere in maniera eguale. Un paio di esempi chiariscono ciò che intendo. Che bisogno c’era di incidere con la Mutter, nel 1984, una versione ultrazuccherosa e irrimediabilmente passatista de Le quattro stagioni di Vivaldi? O consegnare al disco ad ogni miglioramento tecnologico e salto di casa discografica lo stesso pacchetto di ouverture e intermezzi operistici tra lo strappalacrime e il drammone casalingo, interpretate in maniera cafonissima?

E mentre si effettuano queste operazioni di dubbio gusto incidere uno dei migliori Brahms che siano mai stati consegnati ai posteri, dell’ottimo Beethoven (1963) in chiave wagneriana ma imperiale, un’Ottava di Bruckner che regge il confronto con quella di Furtwängler. Il regno delle contraddizioni. Ma il segreto del fascino che esercitava, ed esercita ancora, su legioni di ascoltatori è proprio il suo giocare su più tavoli in maniera del tutto credibile e disinvolta: predica popolare per compiacere quelli che si accostano alla musica d’arte non da ‘fedelissimi’ e poi lo stile gesuita da confessionale, per gli ascoltatori più intellettuali, senza che mai i due volti siano mai entrati in contrasto, perché era capace di tenerli a bada dando sfogo ad entrambi insieme nel mondo che forse ha incarnato meglio: l’Opera.

Karajan infatti ha saputo avvicinare molti ascoltatori distratti alle sinfonie di Beethoven o Brahms, ai poemi sinfonici di Strauss (da lui incisi reiteratamente in maniera mirabile) ma soprattutto ha saputo incantare il pubblico dell’opera che raramente si era trovato ad ascoltare un accompagnatore di tale livello, un direttore che sapesse mettersi al posto dei cantanti ed aiutarli in maniera tanto accorta.

Certo, questo idillio è andato benissimo fin quando le voci sono state all’altezza dell’esperimento e finché non decise che qualunque voce potesse cantare in qualunque repertorio. E sono stati gli anni più tristi, dalla fine degli anni ’70 a tutti gli anni ’80: culmine estremo del Karajan operistico di quei tardi anni è la Turandot improbabile di Katia Ricciarelli, travisata meravigliosamente in una luce crepuscolare e liricissima, ma del tutto fuori dalla tradizione esecutiva e dalla volontà dell’autore.

Un capitolo a parte è quello Karajan-Wagner. Il primo direttore che abbia ricondotto il titanismo wagneriano ad una dimensione umana e lirica, dopo Krauss. Intuizioni meravigliose sono state il Tristano dolente e straziato di Vickers, anche indimenticabile Sigmund in Valchiria. Il suo Parsifal magico ma con voci senza nerbo, pure quintessenze senza corpo. Luci e ombre anche sul suo Wagner consegnato al disco, dunque.

Dal lato orchestrale il trattamento è dovizioso senza confronti, orchestra dalla paletta timbrica e dinamica senza paragoni, ma dal lato delle voci solo Valchiria e Oro del Reno passano senza appunti da fare (quasi…), Dietrich Fischer-Dieskau è stato un Wotan della prima giornata rifinitissimo, ma gli altri due peccano di monotonia, il Crepuscolo ha in Helga Dernesch la sua punta di diamante, il resto delle parti principali sono di un grigiore disarmante. Solo il Tristano offre un cast eccellente sotto ogni punto di vista. Resterebbe molto ancora da considerare per un bilancio vero ma altre perle usciranno ancora per inquadrare un genio di tali proporzioni.