Cervelli in fuga

Espatriare? Una scelta obbligata ai tempi del ‘disfare’

Autodefinirmi ‘cervello in fuga’ rievoca immediatamente nella mia testa la battuta di un famoso comico ai danni della Marini: “Signora, il suo cervello quando è scappato?”

Perciò, non mi definirò tale. Quello di cui sono certa è il mio status di expatriate:  ormai da 4 anni lavoro come fiscalista all’estero (prima ad Amsterdam ed ora a Ginevra, con anche un lavoretto come barman part-time in quel di Chamonix) e di rimpatriare non ne ho davvero voglia. Ho, anzi, suggerito a mio fratello – neolaureato con lode al Politecnico di Milano – di fare armi e bagagli a sua volta.

La mia idea dell’Italia, dove ho lavorato per 6 anni e vissuto per 29, è oggi cosi sintetizzabile: un’impareggiabile fucina di talenti che si trova schiacciata tra una crisi economica senza soluzione di continuità ed una “res publica” governata da una classe politica incapace (quando non corrotta-e-incapace) passando per una società dalla mentalità estremamente retrograda. Negli ultimi anni, tutta questa zavorra è arrivata a pesare al punto tale  che la decisione di andarsene sia diventata per molti giovani una scelta obbligata.

Del resto, per quale motivo un neolaureato medio – che non possa contare sulle solite raccomandazioni “all’italiana”, ma solo sul proprio talento – dovrebbe scegliere proprio questo Paese come luogo dove iniziare la propria carriera? La gavetta è percepita dal datore di lavoro come strumento per sfruttare il neolaureato “a costo zero” anziché un investimento per entrambi,  le prospettive di carriera sono inversamente proporzionali allo sforzo (a maggior ragione se uno ha avuto anche la “sfortuna” di nascere donna e, magari, desiderare una famiglia) e, last but not least, la pensione rappresenta crescentemente una sorta di miraggio… un premio da erogare solo ai più fortunati al raggiungimento dell’età pensionabile. A far da ciliegina su questa torta già di per se’ non buonissima c’è, poi, l’attuale politica “del  Fare” che arriva dopo un ventennio di politica “del Disfare” con risultati del tutto identici: tanto marketing e “poche idee, ma confuse” (da cui va il mio sentitissimo “grazie” all’attuale premier che è, davvero, il degno erede del pregiudicato con il quale ha stretto il suo patto fraterno!).

La conclusione è, quindi, che non ci siano molti motivi per restare. Specie una volta che si è toccata con mano la meritocrazia estera, gli orari di lavoro più umani, il miglior trattamento riservato alle donne con figli, una burocrazia più snella, infrastrutture funzionanti, etc., etc.

Perciò – e tutto sommato – io mi reputo molto fortunata ad essere riuscita nell’impresa di emigrare. Il “tutto sommato” racchiude gli inevitabili sacrifici che questa scelta comporta: occorre ambientarsi, imparare nuove lingue, ristabilire un proprio network di persone care, fare i salti mortali per non perdere quelle in patria, stringere i denti quando si sente la mancanza di un Paese che comunque (e a prescindere) si ama sempre alla follia… e via dicendo. Quella di expatriate non è certamente una condizione ideale, specie con il passare degli anni…

Ma tant’è!

Eleonora Calandri

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