Cultura

Dylan Thomas, sessantuno anni senza

In un commento a un post di agosto sulla poesia, mi veniva ricordato Dylan Thomas. Oggi ricorre il sessantunesimo anniversario della sua morte (mi piacciono molto di più questi anniversari dispari) e dunque ho accolto il gradito suggerimento e ripreso in mano una ristampa Einaudi del 1997 con le sue poesie tradotte molto bene da Ariodante Marianni.

Sessantuno anni fa, alla fine di ottobre del 1953, il poeta gallese arriva negli Stati Uniti: ha 39 anni, è nato nel 1914 (quest’anno ricorre anche il centenario della nascita). Dovrebbe, tra le altre cose, assistere al suo radiodramma Under Milk wood. E’ già molto famoso, la sua raccolta di poesie del 1952, In country sleep gli ha spalancato la porta degli Stati Uniti, dove è diventato autore di culto per i giovani poeti americani, tra cui Allen Ginsberg (sei anni dopo, quando il giovane Robert Zimmerman leggerà alcune sue poesie cambierà il proprio nome in Bob Dylan per rendergli omaggio).

Arrivato a New York, Dylan Thomas si sente male: un medico chiamato dalla sua amante americana, Liz Ritell, gli prescrive una dose massiccia di farmaci. Appena si sente meglio, il poeta inizia a battere i locali della zona dove è il suo albergo (il Chelsea Hotel): al pub White Horse si ferma più a lungo, dirà poi a Liz di aver bevuto 18 whisky di seguito. E’ la notte tra il 3 e 4 novembre; smaltita la sbornia, il giorno dopo torna al White Horse: a mezzanotte viene portato in ospedale dove, dopo cinque giorni, il 9 novembre, muore di polmonite, chiudendo un’esistenza funestata dall’alcol e consacrata alla trascrizione del flusso portentoso di immagini che gli si presentano nella testa e che lui, dopo un minuzioso lavoro di ripulitura, trasforma in poesie.

Negli anni precedenti il lavoro sulla poesia è stato intercalato a quello radiofonico: le numerose trasmissioni alla Bbc gli permettono di guadagnare qualcosa e di sopravvivere. Ma quando arriva a New York Dylan Thomas è ormai un poeta affermato e le sue acclamate letture dal vivo sono ben remunerate.

Rileggendo i suoi versi mi accorgo di quanto siano straordinari, disorientanti, ancora in grado di confondermi. E se appena provo a districare la quantità vulcanica di immagini e sensazioni che mi suscitano, immediatamente le poesie sembrano sbriciolarsi e le perdo. Forse è proprio vero quello che scriveva Coleridge che “se non si pretende di fare alcuna critica, la poesia fornisce il massimo piacere solo quando non è perfettamente compresa” (in Biographia Literaria, Editori Riuniti,1991).

Le poesie che preferisco sono quelle in cui trionfa, a tratti simbolicamente e a tratti “carnalissimo” il suo Galles. E su tutte: Colle delle felci (Fern Hill) in cui riaffiorano i giorni dell’infanzia trascorsi nella fattoria di sua zia Annie a Llangain, non lontano da Swansea, dove era nato (ma che dire delle magnifiche Nella mia arte scontrosa o mestiereRacconto d’invernoIl gobbetto del parco…). Riporto, per ragioni di spazio, solo dei brani di Colle delle felci, consapevole di quanto sia diverso ascoltarla dalla sua incredibile voce in quell’inglese che scoppia di suoni.

Quando ero giovane e ingenuo sotto i rami del melo
Presso la casa piena di canti e felice perché l’erba era verde,
La notte alta sulla valle stellata,
Il tempo mi lasciava esultare e arrampicarmi
Dorato nei bei giorni dei suoi occhi,
E fra i carri ero il principe onorato delle città di mele,
E una volta oltre il tempo sovranamente feci trascinare
Alberi e foglie e orzo e margherite
Lungo i fiumi di luce dei frutti abbattuti dal vento.

E poiché ero verde e spensierato, famoso pei granai
Intorno all’aia felice e cantavo perché il podere era casa,
Al sole che soltanto allora è giovane,
il tempo mi lasciava giocare tutto l’oro
Nella misericordia dei suoi mezzi, e verde e d’oro
Ero mandriano e cacciatore, i vitelli cantavano al mio corno,
Sulle colline le volpi latravano, limpide e fredde,
E la domenica lenta risonava
Nei ciottoli dei sacri ruscelli.

Per tutto il sole era un correre, era bello, i campi
Di fieno alti come la casa, le melodie dei camini, era aria
E gioco, allegro e fatto d’acqua,
E il fuoco verde era come erba.
E la notte, sotto le semplici stelle, come io
Incontro al sonno cavalcavo, i gufi si portavano via la fattoria,
E per tutta la luna, beato fra le stalle, udivo il volo
Dei caprimulgi e dei mucchi di fieno
E i cavalli nel buio come lampi
E poi svegliarsi, e la fattoria tornava, come un vagabondo
Bianco di rugiada, col gallo sulla spalla; ogni cosa
Splendeva, era Adamo e vergine,
Il cielo s’addensava nuovamente
E il sole tondo nasceva proprio quel giorno.

(…) Oh, quando ero giovane e ingenuo nella misericordia dei suoi mezzi,
verde e morente mi trattenne il tempo,
benché cantassi nelle mie catene come il mare.