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Alitalia-Etihad, sindacati sugli scudi: “No a trattativa al buio su esuberi”

I rappresentanti dei lavoratori non sono disposti ad accettare 2.251 uscite senza conoscere il piano. Ma l'azienda guidata da Del Torchio ha il coltello dalla parte del manico. Anche perché se l'accordo saltasse i posti a rischio sarebbero molti di più

Il piano Alitalia-Etihad resta un mistero per pochi eletti fra cui banche, governo e soci. Per questo i sindacati non sono disposti ad accettare passivamente 2.251 esuberi. Prima vogliono sapere su quali basi si fonda una richiesta così importante di tagli che riguarderanno 1.084 unità del personale di terra, 380 di quello navigante, tra cui 258 assistenti di volo e 122 piloti, e 787 lavoratori in cassa integrazione a zero ore volontaria. Del resto, come fanno notare le organizzazioni di categoria, nella storia delle trattative sindacali non è mai successo prima che si discutesse di esuberi senza avere alcun minimo riscontro sui progetti. L’azienda guidata da Gabriele Del Torchio ha però il coltello dalla parte del manico. E così il confronto con i sindacati proseguirà fino a venerdì 20 giugno nella speranza di riuscire ad avere per sabato 21 il quadro completo della situazione. Solo successivamente i sindacati affronteranno anche il tema della sostenibilità finanziaria del fondo volo che, secondo l’ultima intesa con il governo, fino al 2018 dovrà offrire un’integrazione del reddito ai lavoratori del comparto aereo pari all’80% dello stipendio, pesando in parte anche sui biglietti.

Le organizzazioni sindacali sono insomma di fronte a una delicata fase delle trattative. Anche perché, come recentemente ricordato dal ministro dei trasporti Maurizio Lupi, sullo sfondo resta il rischio che l’intesa con la compagnia del Golfo non vada in porto e di conseguenza “vadano a casa tutti” i lavoratori Alitalia. Ipotesi, quest’ultima, che naturalmente il governo di Matteo Renzi vuole assolutamente scongiurare, anche a costo di far pagare buona parte del salato conto Alitalia ai cittadini come accadde nel 2008. Quando il primo salvataggio della compagnia, orchestrato da Silvio Berlusconi con il supporto dell’allora ad di Intesa, Corrado Passera, gravò sui contribuenti per 4,5 miliardi di euro.

Finora, del resto, l’intera operazione è già costata cara alle Poste Italiane, che hanno bruciato 75 milioni versati nell’aumento di capitale Alitalia dello scorso dicembre, e ha pesato complessivamente sulle casse pubbliche per almeno 210 milioni. Non a caso l’ad del gruppo, Francesco Caio, è freddo sulla possibilità di partecipare alla nuova ricapitalizzazione necessaria alla compagnia italiana, che lo scorso anno ha registrato 560 milioni di perdite. Poste dovrebbe sborsare altri 38,9 milioni, portando il suo investimento in Alitalia vicino a 114 milioni complessivi. “La scelta di Poste (di entrare in Alitalia in dicembre, ndr) è stata una scelta industriale“, ha recentemente spiegato il ministro Lupi, riferendosi alle ipotesi di sinergie con il vettore postale Mistral air. “Penso che adesso vorranno valorizzare il loro investimento, ma questa valutazione non spetta né al Governo né a me. Poste, come tutti i soci italiani di Alitalia, dovrà fare le sue scelte. Decideranno i consigli di amministrazione”. Così come fecero a fine novembre 2013. Quando Poste italiane fu costretta di fretta e furia a convocare un’assemblea per cambiare l’oggetto sociale aziendale introducendo i servizi di trasporto aereo e partecipare così alla prima ricapitalizzazione Alitalia, salvando il vettore dal collasso.