Economia & Lobby

Corruzione, la spending review delle tangenti

E’ un copione da commedia all’italiana quello recitato dai protagonisti dell’ultimo scandaletto all’italiana, stavolta targato Enac. Ci vogliono le intercettazioni per cogliere le sfumature, le risate, la sicumera di chi ingrassa i conti dell’impresa sprofondando in rosso i bilanci pubblici: “A noi ce danno 900 mila euro e io il lavoro lo faccio fa’ a un altro per 62 mila… lui guadagna il 91 per cento”. “Hanno fatto co’ tremila euro un lavoro de settantacinquemila, sulle facciate”. E ancora, rassicurandosi a vicenda che non c’è nulla da temere, tanto si è sempre fatto così: “Ma lo sanno tutti, dai… siamo la barzelletta dell’Urbe…” 

Una storia già sentita troppe volte. Nella gestione degli appalti negli aeroporti minori del Lazio, in particolare quello di Roma-Urbe, un imprenditore avrebbe fatto il bello e il cattivo tempo per almeno cinque anni, anche grazie a una rete di società controllate di fatto con cui era capace di inventarsi una concorrenza fittizia. Il direttore dello scalo e i responsabili dell’ente? Tutti a libro paga, secondo gli inquirenti. Per questo controfirmavano senza fiatare fatture relative a lavori mai eseguiti o mal realizzati.

Le tangenti avrebbero assunto fattezze creative: lavori di ristrutturazione di una villa, la realizzazione di una piscina, persino l’assunzione del fratello di un dirigente. A questo fine si attiva l’imprenditore, che ne sollecita il collocamento – a suo carico – presso un commercialista socio d’affari: “Ce l’avresti un posto tu? Una scrivania?” “Va bene, va bene…” “Tutto a posto, tutto a carico mio”. Ed è così che la corruzione crea posti di lavoro: forse aveva ragione Il Vernacoliere di Livorno, che tempo fa invocava: “Sarviamo la corruzione, è la più grande azienda der paese: colle tangenti ci si pole mangià tutti!”.

Certo, proprio tutti non possono mangiare con le tangenti, ma quelli che si trovano nella cricca giusta sì, e parecchio. Questo secondo gli inquirenti l’extra guadagno della corruzione targata Enac: appalto da 66mila euro per alloggi di servizio affidato in subappalto per soli 4500 euro; ristrutturazione di una recinzione pagata 866 mila euro ma realizzata in subappalto per 71 mila euro; lavori da quasi 900 mila euro subappaltati per 90mila; costruzione di un hangar con standard di qualità talmente bassi che dopo un anno già cadeva a pezzi – commentano i protagonisti: “Ahò, sta a cascà un pezzo di cornicione…”. Sembrano profitti da record: tra il 900 e il 1500 per cento di extra-guadagno “sporco” assicurato dalle tangenti. Magari fosse un caso isolato.

In un’Asl di Foggia, secondo la Guardia di Finanza, sono state sufficienti poche tangenti da 20mila euro a far acquistare 929 flaconi di disinfettante per sala operatoria a 1920 euro l’uno, a fronte di un prezzo di 48 sterline – circa 60 euro – praticato dal produttore inglese: più del 3000 per cento l’extra-profitto della corruzione. Un saccheggio da guiness dei primati, capace di far arrossire di vergogna primari e funzionari da poco condannati nella stessa Asl, che si sarebbero contentati di gonfiare il prezzo pagato per un taglia-aghi del valore commerciale di 240 euro fino a 3240 euro (appena il 1300 per cento di ricarica).

In questo scenario lascia interdetti il commento del presidente dell’Enac: “Siamo dispiaciuti, ma siamo certi che si tratta di un episodio circoscritto. Finora la struttura dell’Enac è stata immune da questi episodi”. Strana rimozione, visto che è ancora fresco il ricordo della tangente di 40mila euro che sarebbe stata versata all’allora consigliere Enac Franco Ponzato in cambio del certificato di operatore aereo, necessario a un imprenditore per partecipare – vittoria assicurata, manco a dirlo – una gara d’appalto per il servizio di collegamento all’Isola d’Elba.

Quale attività imprenditoriale lecita può garantire a un operatore economico privo delle entrature giuste con la politica o l’amministrazione inquinata margini di profitto lontanamente paragonabili a questi? Ma è così che “la più grande azienda del paese” – ossia la corruzione, secondo il Vernacoliere – sta trascinando i conti pubblici e la competitività del sistema produttivo nel baratro.

I contratti per opere, forniture e servizi pubblici sono stati nel 2011 pari al 15,9 per cento del Pil, circa 251 miliardi di euro. Prosciugare anche di poco le rendite della corruzione – in diversi casi, come si è visto, ben superiori al 40 per cento sul valore del contratto stimato dalla Corte dei conti – porterebbe a un risparmio di qualche decina di miliardi di euro nei bilanci dello Stato.

Da qui dovrebbe partire una vera spending-review della legalità. Più che al vituperato Cottarelli, c’è però da appellarsi al neo-nominato Presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone. Sotto la sua guida l’Autorità deve cercare di svincolarsi dalla logica del controllo formale e dell’adempimento cartaceo fin qui imperante nell’amministrazione pubblica, per sovrintendere e stimolare nei corpi tecnici decentrati un processo di controllo incrociato su costi e prodotto finale dei contratti. Dove circolano tangenti i timbri sono al loro posto, i corrotti avveduti lasciano dietro di sé atti formalmente ineccepibili. I campanelli d’allarme vanno cercati altrove, in quelle cerchie dove – per restare alla commedia all’Italian, da tempo si applica il “do un des”, e ai corrotti basta promettere fogne, strade, ponti per poi “papparsi gli appalti”: era il 1963, già l’aveva capito Totò nel film “Gli onorevoli”