Cultura

Libri: scrittori in erba, ‘salti mortali’ contro il precariato e la biografia di Stirner

Anche le storie sono motori, sai? Motori che rombano e possiedono una voce precisa. In un caso, la tua. Una voce ancora fragile come come un bicchiere di cristallo, forse, ma posso assicurarti che se quel bicchiere lo sfiori nei punti giusti scoprirai che suona. E non immagini quanto bene possa farlo”.

È un augurio (o consiglio) tra i tanti che si trovano nel divertente e utile Caro scrittore in erba… di Gianluca Mercadante (con la prefazione di Gianluca Morozzi; Las Vegas Edizioni), dove, attraverso le esperienze e disavventure nel mondo editoriale dell’autore, ci viene raccontato qualcosa sul mestiere di scrittore, su come trovare l’editore giusto e quali siano i rituali da superare nel momento in cui un editore finalmente decide di puntare sulla tua storia. Sapori e dissapori che uno scrittore in erba deve ingoiare, per sbucciarsi per benino le ginocchia nello sforzo teso a raccontare una verità, la sua, la tua.

Mi sembrò di scorgere due puntini rossi, dal finestrino. Disposti orizzontalmente. È stato un attimo, come se il demonio si fosse appostato sul predellino, con gli occhi infuocati, e noi gli fossimo sfilati accanto a tutta velocità. La cosa mi raggelò, e rimasi concentrato al mio posto, stringendo le mani sui braccioli e respirando forte“.

Adrenalinico, da battito cardiaco accellerato il thriller Panico. Il buio è l’unica sicurezza per rimanere vivi, di Lorenzo Calza (Edizioni della Sera), un viaggio su un treno allucinato che entra in una galleria e, misteriosamente, non ne esce più. Nello scompartimento del protagonista, un trentenne, precario, con le sue ambizioni frustrate, siedono altre persone: una ragazza, un tizio distinto e taciturno piegato sul portatile, un anziano, tre studenti e una famigliola di Rom. Col passare del tempo, tutti realizzano che qualcosa non va. Il buio che circonda il treno diventa dramma. Terrorizzato, l’anziano si sente male e muore. Gli altri si rendono conto che il vagone è bloccato, sono isolati dal resto del convoglio. Da qui inizia un precipitare, con la piccola comunità costretta a interagire per organizzarsi, razionalizzare le risorse e provare a uscire da quell’incastro. Riusciranno a forzare la porta intercomunicante. Il viaggio nel ventre del treno – che scoprono essere vuoto – si trasforma in un vero e proprio incubo; ogni evento precipita, compresi i rapporti interpersonali.

A mia moglie, in realtà, importava solo che io eseguissi puntuale le mansioni ordinarie. Nel gestire la casa c’eravamo divisi i ruoli equamente. Il governo domestico aveva assegnato a me il ministero degli esteri: fare la spesa, pagare le bollette e le multe, contattare l’idraulico, il fabbro e l’elettricista. A lei invece erano toccati gli interni: cucinare, igienizzare, coltivare il giardino. Affrontavo i doveri con metodo”.

Un esordio importante, che a tratti ricorda i testi di Emmanuel Pons, Mia moglie e iodi Alessandro Garigliano (LiberAria), mette in scena un protagonista che fa i salti mortali affinché la mancanza di lavoro, e dunque di realizzazione personale, non lo annienti del tutto. Seguendo il ritmo di un montaggio alternato, il protagonista-marito si inventa un mestiere e, con la moglie, mette in scena atti efferati. I due interpretano cadaveri, immaginando le loro storie, e girano cortometraggi che sperano possano dare loro, un giorno, una parossistica notorietà. A questa narrazione si unisce quella dei lavori che il protagonista svolge a tempo determinato: le esperienze da manovale, da commesso libraio e da orientatore. Lavori esercitati con sovrumano impegno e ossessiva epicità. La ballata incede con un registro umoristico: humor nero che informa e deforma. La danza si svolge tra il protagonista e la propria sconfitta, la depressione, che assume di volta in volta sembianze diverse fino a mostrare la sua vera identità ovvero quella di una donna con la quale il protagonista instaura un rapporto sensuale e perverso, di repulsione e attrazione. Il controcanto di una tale esistenziale lotta per la sopravvivenza è la dolcissima storia d’amore con la moglie del protagonista: la sua anima complementare. Speculativo lui, pragmatica lei; astrattamente furioso l’eroe, altrettanto dialogante l’amata: pur essendo precaria, insegnante di scuola media, dimostra al marito la possibilità di salvezza.

Max Stirner, è stato un filosofo e anarchico tedesco, radicale sostenitore di posizioni anti-stataliste che hanno dato importanza all’ateismo, all’individualismo, all’egoismo etico e a un primordiale concetto di anarchismo. È uscito in Italia Max Stirner. Vita e Opere, di John Henry Mackay (traduzione di Claudia Antonucci; Bibliosofica Editrice), poeta scozzese che dedicò molti anni della sua vita alla ricerca di tutte le fonti possibili, sia testimoniali che documentarie, per realizzare una biografia, l’unica a tutt’oggi attendibile, di Stirner. Ne curò tre successive edizioni, negli anni 1898, 1910, 1914. Quest’ultima viene qui utilizzata per la prima traduzione pubblicata in lingua italiana, che colma una lacuna e apre un velo più “umano” rispetto alla imponente bibliografia stirneriana, incentrata quasi esclusivamente su studi e ricerche di preminente carattere filosofico.

E vorrei concludere, sempre in tema di anarchismo, ma più guascone, ferrarese e leggero con Batiguàza. Resoconto di un’adolescenza, di Cristiano Mazzoni (Este Edition). La rugiada, la guàza in dialetto ferrarese, il profumo dell’umida erba all’alba di una mattina d’estate in uno dei numerosi prati che fioccavano (e che in parte ora non fioccano più) in quella parte sud della città che, una volta, era chiamata “Batiguàza”, quella specie di zoo umano cittadino dove negli anni ’50/’60, via Foro Boario era anche l’ultima strada vera esistente in città, l’ultimo baluardo prima della campagna, prima della lunga via Bologna che portava verso “al Cisòl”. In quegli anni la miseria era quella vera, soprattutto in quella zona. Cristiano Mazzoni, una sorta di Bruno Brancher estense, scrive ciò che era e rappresentava quel triangolo di umanità rinchiuso tra Foro Boario, Argine Ducale e via Bologna a cavallo tra gli anni ’70 e ’80.