Cinema

Film: Tir, il Paese in cui i prof fanno i camionisti

Ancora on the road, ma senza maledettismi, senza canne e poesia: il viaggio è pragmatico, coatto. Né maggiolino, né transporter, ma un anonimo TIR, un bestione della strada, a tracciare una X sull’Europa che non c’è: dalla Svezia a Roma, da Siviglia a Budapest. In cabina, giorno e notte per quattro mesi, sono in due: il regista friulano, classe 1976, Alberto Fasulo e l’attore Branko Zavrsan, già in No Man’s Land. Il titolo è denotazione pura: TIR.

Ha vinto l’ultimo Festival di Roma, presidente di giuria il regista americano James Gray, che in questo rapporto macchina-uomo deve aver trovato un po’ della codi-pendenza che innerva il suo The Immigrant. Anziché gioire di patriottico orgoglio, qualche critico nostrano, anzi, più d’uno ha storto il naso: possibile che con Her e Dallas Buyers Club in concorso Gray e soci abbiano preferito TIR? Possibile, ha vinto, e la dietrologia taccia per sempre. Piuttosto, alcuni osservatori – anche chi scrive – non avevano digerito altro: perché un attore e non un vero camionista, ovvero, qual è lo status ontologico (s’intende, vale anche per Sacro GRA) del film, finzione o documentario?

La sceneggiatura aveva vinto il Premio Solinas nel 2010, per “l’intelligenza nell’interrogare il nostro tempo e la definizione di identità erranti in un’Europa dai confini porosi”, ma Fasulo ha poi dovuto abbandonare la rotta dell’intenso documentario: perché? “Non volevo offendere il camionista con cui ho passato 12 mesi, il croato Zeljko, che mi aveva confessato: ‘Mi mancano due anni, mi servono per far studiare mia figlia, e poi questi diciotto che ho passato alla guida li metto in un sacchetto nero e li butto via’. Non avevo scelto un camionista eroe, figo, bensì un ex professore di matematica, travolto dalla guerra e finito al volante per mera necessità”. Diconsi soldi: 400 euro ex cathedra, 1200-1300 sulla strada, vuoi mettere? Fasulo rimane fedele alla sua storia, ma non potendo avere Zeljko chiede a Branko di impersonarlo: tocca a lui portare in cabina quel vissuto e riviverlo in prima persona sofferta, massacrata. 

Orari mostruosi, vita grama, lontano dagli affetti e, non solo, lontano da sé: ex insegnante a Rijeka, Branko guida, meglio, è teleguidato in giro e ancora in giro, si divide tra i kilometri macinati, i dialoghi scambiati con il collega Maki (Marijan Sestak, vero camionista) e il datore di lavoro, le difficili, manchevoli telefonate alla moglie (la vera moglie di Zavrsan, anche lei attrice). “Una camera iperbarica”, quella cabina, dove Fasulo insuffla considerazioni antropologiche, ma esclude la facile denuncia: alienazione, si sarebbe detto decenni fa, e vale ancora. Lavori come un mulo e non vedi mai quelli per cui lavori: i tuoi cari.

Fasulo la dice così, in realtà, TIR fa di più: dà una spiegazione industriale, su gomma, di quel che succede oggi 2.0, perché la meta è ancora il viaggio, ma nel senso che Branko – e il regista stesso – sono povere unità d’informazione sballottate tra un server-magazzino e l’altro, ovvero, conta da dove partono e dove arrivano, mentre quel che trasportano – e quel che sono – cade in secondo piano. Vite come bytes, logistica senza logica, e sopra tutto il TIR, contenitore indifferente al contenuto, in primis quello umano: la metonimia piega e asservisce tra le lamiere. Non è facile entrare nel film, ma ancor più uscirne: una sola panoramica, tutto il resto è rettilineo, motu proprio, e con regia piana, per sottrazione Fasulo si mette in coda.

Aveva esordito nel 2008 con l’ottimo doc Rumore bianco, qui trova il rumore grigio: sordo e indifferenziato, schiavo e ineluttabile. Maledetto quel paese che, soldi alla mano, ha più bisogno di camionisti che di insegnanti: vale per l’Europa, e ancor più per l’Italia.

Il Fatto Quotidiano, 27 Febbraio 2014