Economia

Milano, l’impresa di gestire un ristorante: “I guai? Non concorrenza, ma burocrazia”

Fabio Pallaro e Giorgio Pucci, titolari di Myke, locale del centro del capoluogo lombardo: "Una buona idea rischia di non servire a nulla, in un Paese dove due casse stereo di troppo possono costare una denuncia"

Le maggiori difficoltà non sono nel mercato o nella concorrenza. Ma nella burocrazia e nelle istituzioni che si dimostrano inerti e ostili“. Fabio Pallaro, 35 anni, ne è convinto. Da poco ha avviato a Milano un locale insieme a Giorgio Pucci, di sei anni più giovane, come lui laureato in Economia alla Bocconi e con esperienze in multinazionali. Gli affari ora girano bene: “A pranzo serviamo anche cento clienti al giorno e da poco abbiamo aperto anche per cena”, racconta Fabio. Ma la partenza è stata dura. Oltre due anni di cavilli e beghe burocratiche da superare. Una buona idea rischia di non servire a nulla, in un Paese dove due casse stereo di troppo possono costare una denuncia. E la ricerca di un finanziamento è una missione quasi impossibile.

Loro l’idea ce l’hanno avuta più di tre anni fa. “Offrire una cucina di qualità in pausa pranzo. In un locale che sia una via di mezzo tra un bar e un ristorante”. Fabio ne discute con Giorgio. Giù le bozze dei primi studi di fattibilità, poi la stesura del business plan. Pare funzionare, così decidono di provarci: nell’ottobre 2011 fondano una srl che dopo un anno e mezzo porterà alla nascita di Myke, My kitchen experience, un locale in zona Garibaldi-Monumentale. “Per partire avevamo bisogno di circa 140mila euro, ma non avevamo immobili da mettere a garanzia – continua Fabio – In banca ci hanno spiegato che per ottenere un prestito, senza proprietà come eravamo, avremmo dovuto rivolgerci a un consorzio di confidi che mettesse la garanzia. Oppure avremmo dovuto immobilizzare noi stessi una cifra analoga a quella del prestito”. Per fare credito, insomma, l’istituto chiede che i due giovani siano già in possesso della cifra di cui hanno bisogno. Un paradosso. “Era un modo per farci capire che di finanziamenti non se ne parlava. Ma senza dirci di no in modo esplicito”.

Fabio e Giorgio provano allora con Finlombarda, la finanziaria per lo sviluppo della Lombardia di cui è azionista al 100% la Regione: “A giugno 2012 abbiamo partecipato a un bando e abbiamo vinto un finanziamento messo a disposizione da Finlombarda e da una banca privata. Ma la struttura del finanziamento è essa stessa una contraddizione”. Il denaro, infatti, verrà versato loro solo dopo la presentazione delle fatture già pagate, a spese già effettuate. A che serve un prestito del genere?, si chiedono Fabio e Giorgio. Questa volta però possono tornare dalla banca cofinanziatrice e mettere sul tavolo il bando vinto. Con in più la firma di una fideiussione e il deposito di 30mila euro su un conto bloccato, ottengono il fido di cui hanno bisogno per partire, in attesa del cofinanziamento di Finlombarda.

A maggio 2013 inaugurano il locale. Problemi finiti? Macché. “Abbiamo terminato di rendicontare tutte le spese ad agosto 2013. Una procedura molto complessa. Ad ottobre ci hanno detto che la cifra erogabile è ridotta del 30%, perché ci hanno contestano alcune voci, come la canna fumaria che per loro non è un impianto o le porte che per loro non fanno parte dell’arredamento”. Fabio e Giorgio consegnano altri documenti. Ogni volta passano settimane prima che arrivi un’email di risposta. Ancora oggi sulla parte contestata del finanziamento non è arrivata una decisione definitiva, e nemmeno il 70% che ha avuto l’ok è stato versato. “Così si mette a rischio l’esistenza di un’impresa – accusa Fabio – La banca ci fa pressioni perché non siamo ancora rientrati dal fido. E intanto continuiamo a pagare interessi più onerosi di quelli del finanziamento di Finlombarda che tarda ad arrivare”.

Se banche e istituti pubblici infilano sul loro percorso un ostacolo dopo l’altro, la burocrazia non è da meno. “Una volta costituita la società, ci siamo messi alla ricerca della location – racconta Fabio – Abbiamo trovato il posto che ci piaceva, ma dovevamo cambiarne la destinazione d’uso. Nel luglio del 2012 abbiamo presentiamo il progetto e tutti i documenti in comune e all’Asl. Ci avevano detto che ci sarebbero voluti due mesi”. E invece di mesi ne passano sei, perché il via libera arriva solo a dicembre. “In Comune almeno avevamo un referente per la nostra pratica, all’Asl nemmeno quello. Così era quasi impossibile reperire informazioni, mentre venivamo rimpallati da un ente all’altro”.

I guai non finiscono nemmeno dopo l’apertura del locale. Perché le norme tra cui districarsi sono tantissime. E può capitare di sbagliare. “A poche settimane dall’inaugurazione i vigili ci hanno contestato la presenza di due casse da stereo. Hanno fatto anche la foto a una radio portatile in cucina – continua Fabio – Le casse andavano segnalate nel progetto, come impianto acustico”. L’errore sembra banale, ma costa un’indagine penale per falso. “Nessuno ha tenuto conto che eravamo in buona fede. Al di là di come andrà a finire, siamo stati costretti a nominare un avvocato penalista”. Tempo e soldi che se ne vanno. Così come quelli necessari per cambiare gli armadietti. “Ce l’ha chiesto l’Asl. Ogni dipendente deve avere il suo, e su questo eravamo a posto. Ma gli armadietti devono essere ad anta doppia, mentre i nostri erano a scompartimento singolo”. Se ci sono le regole è giusto rispettarle, su questo Fabio non ha dubbi. “Ma tutto nel nostro Paese sembra fatto apposta per non consentire a iniziative come la nostra di nascere e svilupparsi”. My kitchen experience va avanti lo stesso. I dipendenti sono cinque, più un collaboratore. La cucina è a vista. “Una garanzia di trasparenza verso i clienti – conclude Fabio – Usiamo materie prime selezionate. Cottura a vapore per il pesce e le verdure, a bassa temperatura per la carne”.

Twitter: @gigi_gno