Cronaca

Degrado, la violenza al potere: quella sacca chiamata Palermo

La violenza al potere la vedi al mattino, quando percorrendo la centralissima via Maqueda sei testimone di un’aggressione verbale senza precedenti: minacciosi negozianti che inveiscono contro gli operai del Comune intenti a piazzare piante in strada per chiuderla al traffico. “Così non lavoriamo, perché le macchine non si fermano” spiegano gutturali, ignorando che lì le auto non potrebbero (dovrebbero) comunque fermarsi anche quando la strada è aperta al traffico. La violenza al potere la vedi quando parcheggi e devi dare un euro di pizzo a quell’uomo che promette di proteggere la tua auto da se stesso. La violenza al potere la vedi la sera, quando le auto sfrecciano in quelle strade che dovrebbero essere isole pedonali e le moto, se c’è traffico (e quindi se non sempre, spesso) non disdegnano di eleggere il marciapiede a loro personale corsia di sorpasso.

La violenza al potere la vedi tutto il giorno, tutti i giorni, quando stai bene attento ad estrarre il tuo telefono dalla tasca: ti hanno già picchiato e rapinato, è successo e succede anche a molti altri e a qualcuno hanno perfino regalato una coltellata in cambio dell’Iphone. La violenza al potere la vedi quando i locali sono costretti a licenziare il personale perché i funzionari del Comune non riescono a mettersi d’accordo sul regolamento dei gazebo, e nel frattempo li vietano tutti o quasi. La violenza al potere la vedi quando nel pericolante centro storico, che pericolante lo è dal 1943, un palazzo sventrato decide di fare l’unica cosa che da decenni sembrava minacciare: crolla su se stesso come se ci fosse il terremoto. Solo che il terremoto non c’è e nemmeno occorre per far tremare questa Palermo in completo disfacimento.

Un disfacimento fisico, che ha origini ormai remote, ed uno culturale, sulle cui origini esiste ormai una pubblicistica sterminata. Diceva Vittorio Nisticò, storico direttore dell’Ora, che i siciliani si dividono in due categorie: pesci di scoglio e pesci di mare aperto. Definizione estendibile ai palermitani: c’è chi è costretto a viverci senza sceglierla, e chi invece l’ha scelta perché l’amava. Solo che oggi quella città misteriosa, piena di storia e bellezza in chiaro scuro, eccessi dosati in egual misura, è una città insicura, pericolosa, sporca, attraversata da fiumi di latta rumorosa, in cui gli automobilisti guardano in cagnesco i vigili urbani, mentre mini gang di rapinatori attraversano il centro a caccia di bottino e i commercianti sono disposti a tutto per bloccare qualsiasi civilizzazione delle strade.

Nel 2012, dopo il decennale regno di Diego Cammarata, il sindaco meno amato d’Italia, i palermitani hanno deciso di riportare alla loro guida Leoluca Orlando, il sindaco della primavera, il primo cittadino che aveva rimesso a nuovo la città. Oggi dopo il crollo inevitabile di un palazzo a Piazza Garraffello, il comune ha deciso di mettere in sicurezza la zona piazzando un muro di mattoni gialli in mezzo alla strada: una barriera di tufo nel cuore del centro storico, che ferisce a morte ogni barlume di presunta civilizzazione cittadina.

Anni fa, quando il tritolo mafioso e le trattative di Stato insanguinavano questa bellissima terra, i giornali titolavano: Palermo come Beirut. Oggi il Libano ci sembra perfino un lusso. Forse la definizione migliore di questa città la diede Giuliana Saladino, in uno strepitoso libro – diario sul caso De Mauro. “Palermo – latitudine 38 ° longitudine 13° altezza sul mare m 19, intero territorio ettari 15.876, 8 mandamenti urbani, 13 frazioni suburbane – si disfa sotto gli occhi impassibili di 659.000 palermitani. Anche a volere muovere un dito non si sa da dove cominciare, se dallo stato che esiste solo come vertice di mafia o di latrocinio o dal cittadino che ha avuto millenni di tempo per organizzare la sua difesa a danno altrui. Non è Europa e non è Africa. Non è capitalismo e non è feudalesimo. E’ solo una sacca”. Era il 1972 e nonostante quella porcheria criminale passata alla storia come il sacco di Palermo, di muri piazzati tra le strade del centro non si ha memoria. E quella sacca chiamata Palermo continua imperterrita a disfarsi, mentre nessuno sa bene da dove cominciare