Cultura

Beni culturali: Volterra e l’eredità che non ci meritiamo

Il Paese è finito. È una frase ricorrente, ormai, nella conversazione privata della classe dirigente, e specie di quella politica. Un cinismo fatalista che è insieme un’assoluzione per il passato, una copertura per l’immobilismo presente, una dichiarazione di bancarotta preventiva per il futuro, un ottimo motivo per non lasciare la plancia di comando: tanto che differenza fa, ormai?

È a questa frase che penso vedendo le mura medioevali di Volterra atterrate da un temporale. O vedendo il mare che si porta via il recinto sacro, e forse gli altari, del Tempio dorico di Kaulon, in Calabria. Piangendo quest’ultimo lutto, l’archeologo calabrese Battista Sangineto ha scritto che “le eredità storiche bisogna meritarsele, non sono acquisite una volta per sempre, bisogna saperle curare, nutrirle, valorizzarle. E noi italiani con tutta evidenza non ne siamo degni”.

Enrico Letta aveva detto che se ci fossero stati tagli alla cultura si sarebbe dimesso: cosa aspetta, allora, ad andarsene, di fronte ai tagli, anzi alle amputazioni, di Volterra e di Kaulonia? Perché queste amputazioni non si devono alla natura: sono il prodotto, dimostrabilmente diretto, di anni ed anni di leggi finanziarie, compresa l’ultima. Tagli agli enti locali, tagli ai Beni culturali, tagli all’università, alla Carta geologica e altri infiniti tagli al futuro del Paese, che tanto “è finito”: le mura di Volterra, il tempio di Kaulon sono stati tranciati dalle gigantesche forbici sorrette da schiere di presidenti del consiglio, ministri, sottosegretari. E non si dica che i soldi non ci sono: grazie al decreto Imu-Banca d’Italia, Banca Intesa da sola incassa al netto una cifra superiore al bilancio annuale del patrimonio culturale.

Allora, si abbia il coraggio di dire almeno la verità. Perché è giusto dedicare pagine e pagine all’intollerabile fascismo di alcuni dei deputati e senatori Cinquestelle. Ma io vorrei leggere anche qualche riga che spieghi chi, come e perché questo Paese l’ha distrutto. Perché non è finito: è stato finito.

Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2014