Cultura

Impegno, che fine ha fatto l’autorevolezza degli intellettuali?

Una cosa per me è chiara: l’autorevolezza è una cosa che proviene dagli altri, non te la puoi costruire da solo. Chi ci prova può anche riuscire per un breve tempo e con un marketing aggressivo a farsi credere autorevole, ma poi viene sempre – sempre – smascherato. Quindi, l’autorevolezza di alcuni intellettuali di riferimento (e parlo per esempio di Eco, Vattimo, Saviano, De Luca, Asor Rosa, Travaglio, per fare alcuni dei nomi più noti) è nata a seguito di un grande consenso che si è sviluppato nel tempo. Non si dà autorevolezza immediata.

Per questo mi hanno sempre spaventato le critiche materialiste sulla presunta non-purezza del singolo intellettuale che, se è diventato un riferimento, lo è diventato senza poterlo costruire. Qualsiasi strategia risulta posticcia. Ci sarà un passo falso, prima o poi. E mi hanno sempre spaventato perché mi sono sempre sembrate l’unico modo, l’unico appiglio, per poter attaccare quella persona. Come a dire: tu che sei uomo di impegno non dovresti percepire compensi, perché altrimenti le tue idee sarebbero contaminate alla fonte. Mi è sempre parso un argomento debole. Per scrivere libri, per scrivere sui giornali, per fare ricerche accademiche, uno ha bisogno di vivere, cioè di guadagnare, e se ci riesce con quello che scrive ha raggiunto il suo scopo: dedicare tutte le sue energie alla scrittura e all’impegno.

Mi sono sempre sembrate il grado zero delle critiche, queste. Le più basse.

Qualche giorno fa un amico giornalista mi ha girato la mail autopromozionale di un collega, Luca Mastrantonio, che ha scritto un libro, “Intellettuali del piffero” (Marsilio, 2013), che va proprio in quella direzione: cercare di colpire gli intellettuali “impegnati” su basi, diciamo, materialistiche (i compensi, le apparizioni, le collaborazioni) e non sulla base delle loro idee, per farli apparire impuri, e quindi colpevoli tout court, delegittimati.

In quella mail l’autore parla di una “chiamata alle armi della critica”, invitando il destinatario ad acquistare il suo libro. Da un lato, quindi, una delle missioni naturali degli intellettuali: la condivisione di un’idea e il desiderio che venga promulgata, cosa che fa dell’autore del libro in questione solo un giovane aspirante-autorevole. Dall’altro, però, il ricorso alla diretta promozione dello stesso autore finalizzata alla vendita (“Il libro è andato bene nella prima settimana, ma nei prossimi giorni si gioca il suo futuro. Dobbiamo viralizzarlo”).

Con me, devo dire, ha funzionato. Ho letto il libro, ma non ci ho trovato nessuna critica sostanziale, niente che mi abbia cambiato in nessun modo.

Più che altro, però, dalla lettura sono uscito con delle domande: non si rischia così soltanto di alimentare, piano piano, un clima di diffidenza nei confronti di tutti quelli che prendono posizione, degli intellettuali “impegnati”, in generale?

Camilleri, De Luca, Vattimo, Eco, Saviano. Qual è la loro colpa?

Prendiamo per esempio quest’ultimo, da giorni oggetto di attacchi. Come può essere più facile parlare male di Saviano anziché fermarsi a pensare a quello che ha avuto il coraggio di portare fino in fondo? Non si può rischiare che passi l’idea che la chiacchiera prevalga sempre e comunque. Questo è il livello del gossip. La verità è che Saviano da solo ha fatto, in termini di consapevolezza collettiva sul potere delle mafie, quanto fece a suo tempo soltanto Giovanni Falcone. E lo ha fatto con la parola. Mai si è parlato tanto di mafia quanto dal 2006 a oggi.

Perché limitarsi al grado zero della critica e non invece unire le voci, le forze?

Non credo che libri come quello di Mastrantonio aiutino i più giovani. Al contrario, trovo che coltivino una diffidenza che va proprio dalla parte sbagliata. Quella che elimina il contenuto – il lento lavorio che sedimenta costruzione di autorevolezza – e fa passare come valore il più basso dei meccanismi di marketing e autopromozione.