Cronaca

Mafia e antimafia: minacce a Di Matteo, la storia si ripete

Oggi sono abbastanza incazzata. Vedo la storia ripetersi davanti ai miei occhi e mi sento colpevolmente e assurdamente impotente. Il silenzio istituzionale sulle minacce che ricevono gli uomini migliori di questo Stato è assordante. Oggi Il Fatto Quotidiano titola in prima pagina “Lo Stato e la mafia contro i giudici scomodi”. E’ proprio così, perché Nino Di Matteo, il Pm più protetto d’Italia, con un livello di scorta pari al Presidente del Consiglio e della Repubblica, non è attaccato solo dal boss Totò Riina ma anche dal Consiglio Superiore della Magistratura, che ha aperto un procedimento disciplinare contro di lui per presunte fughe di notizie riguardo le intercettazioni tra re Giorgio Napolitano e l’imputato Nicola Mancino (dimenticandosi che indiscrezioni in merito erano già uscite su altri giornali) e, indirettamente, dalla Presidenza della Repubblica, che sollevò il famoso conflitto di attribuzione che si risolse, come è noto a tutti, con l’affermazione che il Presidente della Repubblica può essere paragonato a un medico, un avvocato o un prete (dando implicitamente all’imputato Mancino il ruolo di paziente, assistito o confessato – da Napolitano ovviamente).

Uniche voci fuori dal coro, nei palazzi del potere, sono state quelle del Movimento Cinque Stelle, perché la verità va detta fino in fondo, sempre. Come va detta, in modo diretto e onesto, anche quando le istituzioni, la stampa e la società civile scelgono di considerare le minacce alla vita di alcuni uomini, che si battono per lo Stato e contro le collusioni tra questo e la mafia, meno importanti di altre. Vite di serie A e vite di serie B, quindi. Nemmeno un mese fa, infatti, l’imputato nel maxiprocesso ‘Gotha 3’ per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso con l’aggravante di aver promosso e diretto l’organizzazione mafiosa barcellonese, Rosario Pio Cattafi, già pluripregiudicato e al 41bis, ha minacciato in udienza pubblica l’avvocato di tanti familiari vittime di mafia, Fabio Repici.

Nessuna voce si è alzata in sua difesa. Non dal giudice in tribunale, non dalla società civile, non dalla stampa. Delle istituzioni, poi, non ne parliamo, non hanno emesso un suono per una minaccia del capo dei capi a un magistrato molto conosciuto, come potevano spendere una parola per un avvocato molto meno famoso e contro un pregiudicato del quale non si vuole ancora riconoscere la pericolosità?  “Si muore quando si è lasciati soli”, diceva Giovanni Falcone. Lo sapeva bene lui, lo sapevano Paolo Borsellino e tutti quelli che hanno fatto la loro fine. Lo sapeva bene anche chi quella fine gliel’ha lasciata fare, se non ordinata. La storia si sta ripetendo, i nostri uomini migliori vengono lasciati soli a combattere da un lato contro i mafiosi e dall’altro contro le carte da bollo dei processi a loro carico che stanno subendo.

Il silenzio ipocrita, agghiacciante e colpevole delle istituzioni (e, per alcuni uomini, anche della stampa), mischiato agli attacchi incrociati di giornali e “giornalisti” che mentono sapendo di mentire o che scrivono falsità perché proprio non ci arrivano, insieme alla superficialità della società civile, mi ha fatto spesso pensare (e, qualche volta, dire ad alta voce) la classica frase clichè: “ma chi glielo fa fare?” Forse la risposta a questa domanda è sempre quella che mi diede Fabio Repici tanto tempo fa: “io non ho la necessità di credere che si raggiunga l’obiettivo per impegnarmi a fare la cosa giusta. Mi basta sapere di star facendo la cosa giusta.” Ha ragione. Ma, cavolo, quanto è difficile ricordarselo in giorni come questi.