Politica

Letta e Renzi come Moro e Fanfani: un Paese in lento declino

Per chi ormai ha troppe primavere sul groppone, il remake democristiano in corso assume un profilo a dir poco grottesco. Tanto che – tra l’ipercinetico che impazza alla Leopolda e il flemmatico di Palazzo Chigi – qualcuno ha riportato in auge l’antica metafora de “i due cavalli di razza”. L’etichetta appiccicata in altri tempi ad Amintore Fanfani e Aldo Moro, la cui comune ipotetica natura di purosangue si tradusse soltanto in una spietata concorrenza sul mero terreno del potere; a scapito della crescita civile e della secolarizzazione/modernizzazione del Paese. Avversari sì, quanto sinergici nel tenere salda la presa sulla società italiana.

Analogie alla GianBattista Vico (“che imbecille!”, diceva Giorgio Gaber riferendosi al teorico dei “corsi e ricorsi”), che funzionano – sia chiaro – esclusivamente come semplificazioni tipologiche e modellistiche; ma con una certa forza esplicativa. Dunque, idealtipi già dominanti in quella Prima Repubblica che ora torna a fare capolino nell’esaurimento palese della Seconda. Quasi una coazione a ripetere: qui da noi il grembo inesausto del clericalismo in politica continua a clonare di oscuri antagonisti, fratelli coltelli. Matteo Renzi ed Enrico Letta. Il “tipo fanfaniano” trova perfetta esemplificazione nello slogan a tormentone “fare, non durare” con cui l’ultimo Maurizio Crozza mette alla berlina i marchingegni manipolatori (“da mentalist“) con cui il sindaco assenteista di Firenze simula un’operosità indefessa; che – in effetti – è soltanto teatralizzazione, in quanto non supera mai la soglia dei preliminari. Difatti il personaggio sprigiona un’energia motoria che si avvita sostanzialmente su se stessa, un po’ come il criceto che corre all’impazzata nella ruota della gabbietta continuando a restare sempre al medesimo punto. Ma per chi lo guarda dall’esterno (ed è già di per sé predisposto a crederselo), il Renzi-criceto ingenera l’impressione di formidabili rotture dell’immobilismo vigente; quanto viene reputato la causa dei nostri problemi. E in realtà è così, solo che lo schiodamento effettivo del quadro politico bloccato presupporrebbe precise strategie innovative, mentre i generici annunci renziani sono un effetto ottico ingannevole. Per la stessa ragione che rendeva mistificatorio il riformismo fanfaniano: l’ecumenismo paternalistico acchiappavoti più generico, che dribblava abilmente il punto dolente (“divisivo”, si dice oggi) di ogni effettiva trasformazione; che per essere tale deve andare a vantaggio di qualcuno e penalizzare qualche altro. Che ora si reincarna nell’acrobata dell’ovvietà come retorica rottamatrice.

Il “tipo moroteo” privilegia l’antica regola gesuitica del “sopire e troncare”, di cui lo statista pugliese fu la più perfetta incarnazione del dopoguerra. Ergo, la politica come sfinimento. Con un duplice risultato: mettere in ghiacciaia i problemi per smorzarne la potenza sovversiva e – al tempo stesso – spossare le tensioni sociali innescate da tali problemi, fino a trasformarle in abbandono fatalistico. Tecnica che consentì a Moro di ingabbiare le velleità riformatrici dei socialisti nel primo centrosinistra e successivamente impastoiare in estenuanti mediazioni persino il Partito Comunista. Un po’ quello che in tono minore sta impegnandosi a fare l’attuale presidente del consiglio; la giovane “vecchia talpa” al lavoro: scaricare l’indignazione collettiva che aveva rischiato di far saltare il banco nelle elezioni dello scorso febbraio. Ecco dunque le due modalità del revival: rassicurare un popolo di donne e uomini smarriti, disperatamente bisognosi di certezze purchessia, vuoi prospettando un attivismo senza attività, vuoi una stabilizzazione che non tocca i disequilibri. Insomma, una messa in scena che lasci sperare quello che non potrà accadere: l’uscita dalla crisi a mezzo pratiche finalizzate a tutelare le ragioni della crisi stessa, attraverso il loro occultamento.

Niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il lascito del fanfanismo e del moroteismo fu un Paese avviato al lento declino nel sottosviluppo, proprio per l’incapacità (o – meglio – la contrarietà) della classe politica dominante di consolidare con un salto di qualità le straordinarie energie spontanee che avevano prodotto il Miracolo Economico e portato l’Italia a livelli mai prima e mai più raggiunti.