Politica

M5S e il vincolo di mandato: progresso o restaurazione?

Visti i battibecchi sollevatisi tra i Pentastellati in tema d’immigrazione clandestina colla ciurma che schiamazza contro i capintesta: Grillo e il suo server Casal-aggeggio, che subito rimbrottano gli ammutinati mi pare che qualche parola debba spendersi per capire qual è, ammesso ci sia, il senso dei post post Lampedusa. Premetto inoltre che, in generale, concordo con le posizioni del Movimento su molti punti, persuaso che, innanzi ai reiterati fiaschi del governo barzel-Letta, gli unici a operare con dignità, opponendosi alle solite porcate bipartisan, siano stati proprio i Cinquestelle. Ma veniamo al dibattito vero e proprio, che vorrei analizzare ponendo attenzione alle sue premesse storico-teoriche. Quanto al contenuto politico del messaggio, che m’è parso francamente disdicevole, fuori luogo e malcelatamente leghista, non avrei niente di diverso da dire rispetto a quanto ha già scritto ieri Scanzi.

Nel secondo degli interventi dedicati all’argomento, Grillo scrive: “L’eletto portavoce ha come compito l’attuazione del Programma del M5S”. Questo per dire ai suoi: l’abolizione del reato di immigrazione clandestina non è nel programma dunque non sta a voi pronunciarvi in merito. Il vostro compito è rigidamente vincolato al mandato ricevuto dagli elettori: non siete autorizzati ad alcuna iniziativa politica estranea ai punti programmatici sulla base dei quali siete stati votati. Grillo insiste cioè sul fatto che l’eletto è soltanto un portavoce e non un rappresentante nel senso classico del termine snodo teorico fondamentale che tocca appunto il nervo giuridico della questione (sollevata peraltro a più riprese dallo stesso Grillo e approfondita nel dettaglio in un post del 3 marzo scorso dedicato alla Circonvenzione di elettore). Come noto, all’articolo 67 la Costituzione recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ma cos’è il vincolo di mandato? In che consiste la differenza tra portavoce e rappresentante?

È d’obbligo una breve premessa storica. Il vincolo di mandato (o mandato imperativo) non è certo un’invenzione di Grillo. Era infatti pratica comune nelle assemblee rappresentative dell’Ancien Régime (ad esempio i famosi Stati generali francesi). Secondo il diritto costituzionale, esso consiste nell’instaurazione di un rapporto esclusivo tra l’eletto e la specifica fazione che l’ha votato e che, in ogni momento, può revocargli il mandato qualora questi non realizzi gli obiettivi per i quali l’ha ricevuto. In altre parole: se vige il mandato imperativo i membri dell’assemblea legislativa sono direttamente responsabili nei confronti dei loro elettori, hanno il dovere di conformarsi alla loro volontà e, in caso contrario, possono essere dichiarati decaduti e venir sostituiti. Ciò comporta però alcuni rischi, primo fra tutti la trasformazione del rappresentante nell’esponente di un ristretto gruppo d’interesse e del rapporto di rappresentanza in un rapporto privatistico cioè un contratto privato che obbliga il singolo eletto ad eseguire le direttive della sola frazione che l’ha espresso (per inciso: non diversamente funzionano le lobby). Non a caso, infatti, salvo alcune sparute eccezioni (come il Bundesrat, il Consiglio federale tedesco, comunque ‘compensato’ dal Bundestag), in epoca recente il mandato imperativo è rimasto in auge solo nelle costituzioni degli stati cosiddetti ‘socialisti’, dove ciascun membro era (o è) più che altro un ‘pigiabottone’ obbligato a non discostarsi in nessun modo dalla linea del partito (in genere unico), pena se va bene la ‘rimozione forzata’. Nelle moderne democrazie parlamentari, dopo la Costituzione francese del 1791, vige invece il principio esplicato con rigore da Sieyès secondo cui gli eletti non rispondono ad alcun gruppo particolare ma rappresentano la “nazione intera” e, proprio per questo, non sono soggetti ad alcun vincolo di mandato. Se infatti la sovranità è attribuita alla nazione nella sua totalità, ciò implica che il suo esercizio non possa essere circoscritto al mandato elettorale attribuito da una sola ‘camarilla’. (Va detto poi che, in ogni caso, nelle moderne democrazie l’esistenza dei partiti, come ben aveva inteso Pietro Virga, è già in sé stessa una minaccia all’Articolo 67, non essendo la cosiddetta ‘disciplina di partito’ che una versione pateticamente edulcorata del vincolo di mandato: chiunque esprima un voto contrario all’‘ordine di scuderia’ rischia infatti l’epurazione, o comunque la non rielezione).

Detto questo, che ne è della posizione di Grillo, che intende trasformare gli eletti in portavoce facendo leva sul vincolo di mandato? Partirei da alcune evidenze difficilmente oppugnabili:

1. Contrapponendosi apertamente all’articolo 67, il pensiero di Grillo è di fatto anticostituzionale. In questo senso, la richiesta che avanza nei confronti del suo gruppo parlamentare non ha alcun fondamento nel nostro attuale ordinamento giuridico.

2. È innegabile che si tratta, letteralmente, di un pensiero reazionario, poiché intende reintrodurre una principio, quello appunto del mandato imperativo, che è consegnato ad un’epoca storica precedente la Rivoluzione Francese.

Ora, a queste due prime considerazioni è necessario opporne altre due, per cui: in primis la Costituzione non è certo lettera divina così com’è stata scritta può essere anche modificata (magari non nel modo sciagurato in cui pensa d’intervenirvi l’attuale let(t)ame politico!); secondariamente, nonostante in genere in malafede glielo imputino da tutte le parti, il M5S non mi pare affatto un fenomeno reazionario. Dov’è allora il punto? La mia analisi è la seguente: il vincolo di mandato può essere eliminato se e solo se si esce dal modello, tuttora vigente, della democrazia rappresentativa parlamentare. Altresì detto: Grillo non può pretendere che gli eletti del M5S, finché stanno assisi in Parlamento, rispondano ad un mandato imperativo che è del tutto contraddittorio con la struttura stessa dell’istituzione che occupano. Introdurre il vincolo di mandato in un’assemblea rappresentativa sortirebbe oltretutto come unico esito quello di riproporre, in chiave lobbistico-reazionaria, il modello prerivoluzionario dell’Ancient régime. Quale dunque la soluzione? Nel propongo due.

Sul breve termine direi di rinunciare del tutto a simili prerogative: rendono i grillini affatto impotenti rispetto a quel minimo di agilità decisionale che l’accavallarsi dei problemi richiede. Lampedusa pone una questione: tutti ne discutono e i grillini che dovrebbero fare? Aspettare le prossime consultazioni elettorali ed un nuovo responso del web? Mi pare opzione utopistica e infantile.

Sul lungo termine, si tratta invece d’istituire un vero e proprio laboratorio di pensiero politico dove venga posta in tutta la sua pregnanza la questione di come superare su base tecnologica la democrazia fondata sulla rappresentanza. L’unica via percorribile per risolvere le contraddizioni imposte dal principio del libero mandato, mi pare quella di una democrazia diretta che, anziché trasformare il rappresentante in portavoce, renda ciascun cittadino rappresentante soltanto di se stesso il che è appunto possibile solo per via telematica. Personalmente è un’opzione che mi lascia assai perplesso, per non dire contrario chi può garantire che una maggioranza non qualificata sia necessariamente portatrice di progresso e non di abominio? ‒, ma se questa è la sfida che la contemporaneità c’impone vale forse la pena pensarci.

Eppure ogni discussione è destinata a morire sul nascere finché il marchese del Grillo, specie quando rampogna i suoi ove mai s’azzardino a pensare con la propria zucca, continua a zittirli col solito refrain dell’“Ah… mi dispiace, ma io so’ io, e voi non siete un cazzo”.