Scuola

Università, concorsi riservati a un popolo di volontari

Recentemente si è verificato un ennesimo scandalo ad concorso per l’accesso ad una scuola di specializzazione di Medicina (all’Università Sapienza di Roma): i nomi dei vincitori erano stati segnalati in anticipo da uno dei candidati (poi risultato perdente) al giornale La Repubblica e puntualmente confermati dall’esito concorsuale. In un post come questo non ha interesse lo specifico evento, sul quale non si potrebbero dire altro che banalità, quanto la categoria a cui l’evento appartiene, tanto più che il caso è oggetto di ricorso.

Non c’è dubbio che in Italia il concorso truccato o comunque contestato ha una certa frequenza sulla quale vale la pena di interrogarsi. Siamo più disonesti dei popoli nostri confinanti? Se sì perché? Abbiamo una tara genetica? Poiché le spiegazioni genetiche sul comportamento dei popoli non convincono più nessuno (per fortuna), conviene cercare le ragioni del costume nazionale nella nostra situazione contingente non allo scopo di giustificare i comportamenti illegali, ma di capirne le ragioni, e, se possibile, di rimuoverle.

Le ragioni del malcostume nazionale della raccomandazione nell’ambiente universitario (ma penso anche in altri contesti) sono perfettamente evidenti a chi ne abbia una minima conoscenza. Il sistema è costruito su basi demagogiche alquanto irrealistiche e non potrebbe funzionare neppure un giorno senza basarsi sul lavoro non retribuito di una schiera di “volontari”, i quali in breve diventano dei creditori che in occasione del primo concorso utile possono esigere il dovuto.

Faccio un esempio banale: la maggioranza di noi insegna, nello stesso semestre, in due o tre corsi che accolgono complessivamente alcune centinaia di studenti. Alla fine del semestre, questi studenti vengono a sostenere l’esame, che non dura meno di mezz’ora per studente: una sessione di esame, che si deve concludere in genere entro un mese per consentire l’inizio delle lezioni del semestre successivo, potrebbe facilmente richiedere duecento ore di lavoro del docente o più. In un mese però duecento ore lavorative non ci sono. Come si fa? Non è possibile per il docente chiedere aiuto ad un collega che sta nella sua stessa condizione.

Il legislatore ha previsto una soluzione: il “cultore della materia”. Non è chiaro a chi abbia pensato il legislatore con questa figura: probabilmente ad un nobile miliardario il quale inganna la noia facendo esperimenti nel cabinet de physique del maniero avito e si presta gratuitamente a esaminare studenti universitari. Nella realtà il “cultore della materia” è un precario o un laureato frequentatore non pagato che si costruisce un piccolo credito nei confronti del sistema e spera che un domani gli sia riconosciuto come un merito. Il giorno in cui si bandisce un concorso qualsiasi questo creditore bussa alla porta e chiede, giustamente, che il suo credito sia saldato.

Aggiungo un altro esempio banale. Un titolo di studio post-laurea di una certa importanza è il Dottorato di Ricerca, cui si accede per concorso. Il dottorando riceve formazione ed in cambio fa ricerca e collabora col suo docente guida; spesso dà contributi essenziali alla ricerca e alle pubblicazioni che ne conseguono. Il legislatore ha previsto due tipi di dottorandi: quelli con borsa e quelli senza borsa. Il dottorando senza borsa ha vinto comunque il concorso di ammissione ma la sua posizione in graduatoria è tale che non gli consente di accedere al misero compenso mensile erogato al suo collega con borsa. Se il dottorando senza borsa accetta la sua posizione e va a fare ricerca nel laboratorio del docente guida diventa, allo stesso modo, creditore del sistema che in occasione di un successivo concorso per borsa di studio o assegno di ricerca spera di far valere il suo merito pregresso.

L’esistenza di lavoratori non pagati ma indispensabili al funzionamento dell’istituzione è un peccato originale del nostro ordinamento; ed è chiaro che negare in sede di concorso i meriti pregressi, oltre ad essere ingeneroso, farebbe in breve sparire queste figure, che pure sono previste dalla legge. La soluzione? L’eliminazione per legge delle figure di lavoratori non pagati e la contemporanea immissione in ruolo di un numero di lavoratori pagati sufficiente a coprire le necessità dell’Università italiana.