Politica

L’eleganza di Berlusconi

Storiella ferragostana: Michaela Biancofiore apostrofa Andrea Scanzi: «sei prevenuto nei confronti di Silvio Berlusconi proprio perché non lo conosci». E poi aggiunge, trepida: «una persona così elegante…».

Solo la struggente devozione da religiosità contadina può indurre la sottosegretaria di Bolzano ad attribuire connotati da icona della distinzione al proprio idolo: un ometto – come già ho avuto modo di scrivere in questo blog – ingoffato nel doppiopetto con revers definiti da Paolo Villaggio “ascellari, sogno da ragioniere”, che lo rendono slanciato quanto un tappo della Val Gardena. Look chiaramente ispirato al classico modello “cumenda brianzolo, quello con la sciarpetta bianca sul cappottone cammello e al polso l’orologio d’ordinanza intagliato in un lingotto d’oro; che i milanesi bennati come il vecchio conte Radice Fossati, presidente nei primi anni Sessanta della Camera di Commercio meneghina, trattavano con divertita sufficienza (la stessa di Enrico Cuccia, che si compiaceva di imporre lunghe anticamere nella sala d’aspetto di Mediobanca all’ormai ex Cavaliere, in quanto degradato dalla Cassazione).

Se icona ha da essere, il Berlusca lo è dell’involgarimento del gusto imposto in questi decenni dall’irrompere di una torma di invadenti arricchiti (i tracotanti del Suv parcheggiato in terza fila), che identificano la “distinzione” nel “costoso”; di cui – comunque – ignorano l’appropriato utilizzo: il Flavio Briatore che sulle banchine dei porticcioli turistici mediterranei esibisce babbucce di velluto, quelle con tanto di monogramma create dai calzolai londinesi per un uso strettamente domestico, o il Vittorio Sgarbi in divisa con il suo blazer blu da bancario, che ora tende a sostituire con giacche di casentino da gentiluomo di campagna, di certo fuori luogo se indossate in un salotto televisivo come Servizio Pubblico.

La costante dell’esibizione pacchiana, che potrebbe farsi risalire al tempo in cui invalse l’abitudine – probabilmente introdotta da Francesco Cossiga – di acquistare un tanto al chilo i prodotti di un noto cravattaio partenopeo. Del resto la “prevalenza del pacchiano” è una variazione italiota del cambio dei criteri della distinzione avvenuto nel mondo occidentale a partire dagli anni del secondo dopoguerra, quando gli esperti di marketing si resero conto che i grandi numeri in materia di consumo (dalla musica Rhythm and Blues sbiancata in Rock da “Elvis the pelvis” & Co. ai guardaroba in cui iniziarono a imporsi i blue jeans proletari come capo di abbigliamento principe) li si raggiungeva intercettando le preferenze delle coorti giovanili periferiche dei centri urbani.

Nel passaggio dal raffinato al plebeo avvenne quanto lo storico Eric Hobsbawm riassunse in una battuta: «per la prima volta nella storia delle favole, Cenerentola divenne la reginetta del ballo proprio perché NON indossava abiti meravigliosi». Un cambiamento che venne presentato come una grande liberazione epocale, quando – in realtà – non era altro che una poderosa operazione di marketing.

Madre di tutte la manipolazioni successive, all’insegna della bufala strombazzata come “sovranità del consumatore”: se agli albori della standardizzazione novecentesca Ford sr. dichiarava che gli acquirenti del modello “T” «avrebbero ricevuto la macchina nel colore preferito… se quello era il nero», nell’età del toyotismo viene indotta la falsa sensazione che l’acquirente partecipa in qualche misura alla progettazione del suo acquisto (prosumer).

Negli anni Novanta ci fu persino una ditta di prodotti dolciari che assicurava la possibilità di programmare la quantità di uvetta nei propri panettoni. Sempre l’astuzia di indurre nell’acquirente la (mendace) sensazione dell’articolo fatto su misura; come marchingegno – al tempo stesso – sia per promuovere la vendita sia allo scopo di menare per il naso tale acquirente, illudendolo di mettere in evidenza in quel modo la propria personalità.

In realtà assumendo l’identità artefatta creata a tavolino da un team di esperti in lookologia e merchandising e incorporata in tale prodotto. È in questa ciclopica operazione di presa per i fondelli che si colloca anche l’irresistibile ascesa del presunto elegante Berlusconi: la mercantilizzazione diffusiva del cattivo gusto. Un pensierino che lascio a chi dei miei eventuali lettori voglia rifletterci in questo break ferragostano.