Lavoro & Precari

Lavoro, c’era una volta il colloquio

Se termini come Hr (human resources) e assessment vi sono familiari, allora avete certamente sostenuto un colloquio di lavoro. Parlo di quell’esperienza surreale, a metà strada tra reality show e sfida ad eliminazione diretta, che da qualche tempo qualunque laureato, almeno una volta, ha sperimentato. Tutto comincia da quella mail che tanto aspettavi, per la quale hai consumato la tastiera del tuo pc compilando interminabili form sulla sezione “Lavora con noi“, che ogni azienda diligente mette sul proprio sito web.

Arriva la tanto attesa mail e poi il tanto atteso giorno del colloquio o, almeno, della sua fase iniziale. Eh si perché, come la via crucis, anche il colloquio ormai procede per stazioni o, per dirla in gergo, per step.

Step 1: le prove logico-attitudinali, per le quali, di solito, si comincia in almeno cinquanta-sessanta persone e la location è una sala convegni. Lì incontri persone con ogni tipo di laurea, da giurisprudenza a lettere, da economia a scienze delle comunicazioni; cosa hanno in comune persone con lauree tanto diverse? niente, a parte una disperata voglia di lavorare. Si comincia, hai dieci minuti per scoprire figure nascoste, trovare misteriose connessioni tra sequenze di numeri, incrociare sinonimi e contrari ecc…, sotto lo sguardo vigile di un sorvegliante, attento a che non sbirci dal foglio del vicino. Poi te ne torni a casa e non ci pensi più fino a quando non ti arriva un’altra mail con la convocazione al successivo step, l’assessment, letteralmente, valutazione.

Questa volta lo scenario cambia, diventa una sala riunioni, e cambiano anche i partecipanti, in genere una decina di persone in cerchio come ad una seduta dell’anonima alcolisti. A sorvegliare c’è uno psicologo del lavoro, che valuterà ognuno degli esaminati, intenti a discutere una questione che viene loro assegnata, perché raggiungano una soluzione concordata nel tempo a loro disposizione. E qui, se sei stato bravo, cioè assertivo ma non troppo, convincente ma non prepotente, collaborativo ma non debole, cioè se hai mostrato una spiccata propensione al lavoro in team, passi al successivo ed ultimo step, ovvero il colloquio individuale. Con il futuro datore di lavoro? neanche per sogno. Sempre con lo psicologo, che ti chiederà di parlargli di te, delle tue aspettative per il tuo futuro lavorativo, per la tua vita insomma. Dopo te ne vai a casa e, se sei stato fortunato hai vinto un posto, di lavoro, certo, ma soprattutto un posto in un ingranaggio che ti masticherà e ti risputerà dopo qualche mese con più domande che risposte, perché ti ritrovi a fare un lavoro al quale non eri preparato, che hai imparato soltanto facendolo, che appena l’hai imparato dovrai lasciare perché il contratto scade inesorabilmente e ritornerai ad aspettare una nuova mail.

Di buono c’è che aggiungerai un’altra riga al tuo curriculum vitae e sarai presto pronto a ricominciare i giochi. Peccato che non è un gioco, che questo tipo di selezioni viene svolto da professionisti che svolgono il loro lavoro. Però è lecito domandarsi se un test di logica e un assessment siano veramente strumenti di selezione idonei, soprattutto perché applicati ad un’infinità di posizioni lavorative (dal consulente recupero crediti, all’impiegato di banca, al segretario) e perché bypassano completamente il colloquio individuale con il futuro datore di lavoro, spersonalizzando l’intero procedimento. Si può davvero valutare una persona soltanto sulla base delle sue capacità logiche ed attitudini?

Dove è finito il caro vecchio colloquio di lavoro, dove si è chiamati a valutare le capacità professionali e le competenze acquisite con gli studi? E soprattutto perché esistono posizioni lavorative alle quali corrispondono un’infinità di profili dei candidati, e pochi posti di lavoro corrispondenti ad un preciso profilo professionale, magari quello per il quale ognuno ha studiato? Paradossi di un sistema che ogni anno crea nuove lauree specialistiche e poi cerca lavoratori tuttofare. Sintomo di un malfunzionamento del ponte università-lavoro. Espressione di un paese dove non conta tanto la qualità, ma la produttività, la velocità, l’arte del sapersela sbrigare, la conoscenza dell’inglese e dell’informatica. Pazienza se poi scrivi “c’è l’ho” al posto di “ce l’ho”, perché se sai usare bene il pc, il correttore automatico ti risolverà ogni problema.

Viviana Verri

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