Musica

Roma e gli anni de ‘il Locale’, il palco dove sono nati Gazzè, Silvestri e Favino

Nel 1993 in vicolo del Fico un gruppo di amici dava vita a un 'luogo' storico della capitale: 180 metri quadrati e un piccolo palcoscenico in cui è cresciuta un'intera generazione di musicisti e attori e dove era normale incontrare i big stranieri e italiani

Davanti alla porta un ragazzo alto, moro con la mascella importante, di quelle che non dimentichi. Sogna di fare l’attore, nel frattempo guadagna due lire come ‘butta dentro‘. Lui si chiama Pierfrancesco Favino, ma per gli amici è solo Picchio. Oltre quella porta c’è uno spazio lungo e stretto, con il palco sulla destra. Strumenti sempre pronti, sintonizzatori accesi, jack solo da collegare. La sera, davanti a quel palco, si alterna un gruppo di ragazzi non lontani dalla trentina, magari spettinati, spesso in t-shirt, con il plectro dentro il portafogli: per loro è ancora lontana l’idea di suonare per vivere, ma stanno lì. E uno a uno, piano piano, salgono quei tre scalini che separano la platea dal sogno, imbracciano la chitarra, sbattono sulla batteria, si siedono davanti alla tastiera, provano la voce al microfono. Cantano.

E diventano: Daniele Silvestri, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Frankie Hi-Nrg, Tiromancino e ancora. E ancora. Magia de il Locale, 180 metri quadri al centro di Roma, tra piazza Navona e Campo dei Fiori, dove adesso c’è solo movida, sbronze e risse, esattamente vent’anni fa tre ex compagni di liceo aprivano il loro “salotto di casa, ma allargato. Un posto dove potevamo riunirci con gli amici, chiacchierare, strimpellare, magari provare una pièce teatrale. Bere a prezzi modici, organizzare feste. No, non immaginavamo niente di tutto quello che poi sarebbe avvenuto”, racconta Giorgio Baldi, oggi quarantaseienne chitarrista di Max Gazzè, allora uno dei tre fondatori insieme ad Alberto Molinari (attore di fiction e di teatro) e Andrea Marotti (produttore cinematografico). Eppure è successo.

Gli eredi del Folkstudio
Grazie a un cocktail perfetto, realizzato con fortuna, incoscienza, bravura, tenacia e momento storico, tre giovincelli sono riusciti a prendere in mano l’eredità del Folkstudio, storico locale capitolino, nel quale negli anni Sessanta hanno iniziato i primi accordi Francesco De Gregori e Antonello Venditti, e rilanciare la musica d’autore romana. “E’ stata un progredire velocissimo: ad aprile di vent’anni fa troviamo il posto giusto, in una zona non ancora super sfruttata come ora: i palazzi, in buona parte, erano abitati dai vecchi capitolini – racconta Molinari – Il proprietario, un classico coatto con tanto di camicia aperta, voce grossa e un po’ roca. Perenne collanone d’oro in evidenza. Peccato che tra affitto e caparra finiamo i soldi”. E quindi? “Li chiediamo ad amici e parenti, nessun debito con le banche – interviene Baldi, laureato in Economia, l’uomo con in mano i conti – Alla fine si aggiungono altri nove (nella foto in bianco e nero scattata da Marco Delogu c’è il gruppo al completo)”.

In totale: dodici ragazzi, pronti a passare l’estate tra calce, cazzuole, livellatrici, assi di legno, planimetrie. Quando li senti ricordare quei momenti sembra di rivivere una commedia Stelle e strisce, dove piano piano i protagonisti della pellicola ristrutturano la propria ‘tana’, tra scherzi, infortuni pratici, ricche sbronze. Amori. “Ed è andata così fino all’inaugurazione: era il 13 novembre del 1993 – continua Molinari – quando improvvisamente abbiamo visto realizzata la nostra visione”. Ed è stato subito sold out. “All’apertura era facile ottenere il tutto esaurito, tra amici, conoscenti e imbucati – parola di Baldi – I problemi arrivano sempre dopo. Mi ricordo una sera con Silvio Orlando che mi fa: ‘Voi siete pazzi? Vi rovinate! Perché andate avanti!?’ Boh! Non ci avevamo mai pensato alla possibilità di farci male economicamente, incoscienti fino in fondo”.

Estasiati dal giocattolo, affascinati dalla possibilità di poter decidere perché, come, quando e chi ospitare. Felici dei piccoli, ma continui risultati “siamo andati avanti – ricorda Baldi – Facevamo i conti ogni settimana: se incassavamo tot, spendevamo altrettanto. Quindi acquistavamo sedie, tavolini, miglioravamo la strumentazione sul palco. Un pezzo alla volta. Nel frattempo era festa tutte le sere con quel nucleo di ragazzi e amici che ci hanno accompagnato per anni”. “E io ero uno di loro”, sorride Max Gazzè. Anche lui un giorno manda un demo con un paio di registrazioni “l’unico modo per suonare al Locale era di far sentire i propri lavori – spiega – uno dei pochi luoghi a Roma dove non volevano gruppo di cover, ma musicisti originali. Così ci ho provato”. Quindi il debutto, poi una sorta di ‘filiazione’. “Ero sempre lì, tanto da conoscere prima e innamorarmi poi della barista. E’ diventata mia moglie”.

Il risultato sono tre figli, Bianca, Samuele ed Emily. “Tra quella mura è successo di tutto – lo blocca con il sorriso Giorgio Baldi – e molto è giusto non raccontarlo”. Ma qualcosina… “No, no, meglio evitare. Eravamo giovani, molti di noi sono diventati conosciuti e non è giusto tirare fuori vicende personali. Certo, una notte ho visto Alberto in ginocchio nei bagni per sturare un gabinetto con le mani. Un orrore! Ma il punto è un altro: era una situazione a circolo continuo, con scariche perenni di adrenalina e allegria, dove ognuno di noi poteva realizzare ogni sua aspettativa, sia con la volontà, quanto con il caso. Un esempio? Ho sempre amato la musica punk, in particolare i Sex Pistols. Ecco, una volta mi sono trovato di fronte a Paul Cook, batterista dello storico gruppo inglese. L’ho riconosciuto anche se era vestito con mocassini e maglioncino. Cresta e giacchetto di pelle finiti in soffitta. Era lui, è rimasto con noi, tra musica e birra”.

Niente di strano, la normalità. In quei 180 metri quadri era possibile incrociare il chitarrista Robert Fripp, o Marc Ribot, c’è chi dice di aver incontrato Bon Jovi o Lou Reed, di certo una sera “è entrato il figlio di Bob Dylan – ricorda Molinari – Ragazzo bellissimo. Tutte pazze di lui. Ovviamente ha cantato e Giorgio ha tirato fuori il repertorio di Neil Young. Poi, quando è sceso dal palco…”. Nuova censura sul proseguo della serata. Ma come ogni microcosmo, anche dentro al Locale esistevano dei ruoli, dei punti di riferimento tra i soci e gli avventori più assidui. Tra questi emergeva uno straniero un po’ speciale: “Era Matthew Marston – ricorda Alberto – ragazzo statunitense anche lui arrivato per caso: un giorno bussa alla porta per sapere se avevamo bisogno di un cameriere. Con sé una chitarra, la utilizzava per racimolare qualche soldo per strada. Gli chiediamo di cantare. Perfetto. Assunto”.

Ogni notte era sul palco per introdurre la serata, chiuderla o accompagnare qualcuno in una jam session. Per anni. “C’erano decine di ragazze innamorate di lui. E come ci sapeva fare! Modulava la voce, alternava l’atteggiamento da bello e dannato con il tratto romantico-riflessivo. Ora vive a Londra, è un produttore e discografico, insomma è rimasto nell’ambiente. Un altro sex symbol? Ma Niccolò, ovvio!”. Per Niccolò intende Fabi. “Lui e i suoi capelli erano una certezza – incalza Baldi – un successo. Per questo gli avevamo assegnato due serate fisse al mese, sold out ogni volta”. Quindi Rocco Papaleo, più grande di tutti loro, nel curriculum già qualche esperienza televisiva e cinematografica, una carriera avviata verso il ruolo di caratterista e una passione ricambiata dal pubblico per le sue divagazioni swing; “Rocco? Partivamo insieme anche l’estate: a giugno chiudevamo e gran parte del gruppo si trasferiva in Liguria a casa mia”, parola di Baldi.

Stagione 1996-1997: diventano grandi
La ‘tana’ è oramai aperta da tre e passa anni. Al giro di amici originario si è aggiunto qualcun altro e sono entrati nuovi soci, tra questi due musicisti avviati al successo: Max Gazzè e Daniele Silvestri. Il primo ha dato poco pubblicato la sua prima hit, Cara Valentina; l’altro è al terzo album, Il dado con all’interno Cohiba e il ritornello ‘venceremos adelante o victoria o muerte‘. “Paradosso: ero a pezzi – racconta Molinari – Non dormivo più, vivevamo tutta la notte e anche il mio lavoro da attore stava crollando, non riuscivo a organizzare i provini”. Insomma, i ragazzi iniziavano a diventare grandi. La fila fuori dal Locale una costante, da nicchia a moda. Da salotto di famiglia a salotto con sfumature radical chic. Ogni musicista tra i big italiani e stranieri, finito il concerto allo stadio o al palazzetto, chiudeva la nottata nel ‘covo’ di via del Fico per bere qualcosa (“anche Lucio Dalla è salito sul nostro palco, o Sergio Cammariere!”); ogni giornalista musicale e non sapeva che lì poteva trovare spunti, notizie o contatti con artisti di teatro, televisione o cinema.

“Senza dimenticare i produttori discografici – corregge Giorgio Baldi – erano tutti a bordo palco per prender appunti. Allora non c’era Internet, né i talent show, tantomeno i portali come Youtube. La musica andava suonata dal vivo”. Cresce la fama. E ai ‘romani’ doc, si sommano i talenti oltre il Raccordo Anulare. Gente come Carmen Consoli, i Bandabardò, o i Subsonica: “Incredibile! Grazie a Samo e compagni ho realmente capito cosa avevamo combinato – racconta Molinari – Li avevamo ospitati altre volte, anche quando non erano la formazione definitiva. Ma una sera, una in particolare, sono arrivato al Locale e ho visto la fila girare tutta intorno al palazzo, con persone che mi bloccavano per una raccomandazione. Temevano di non entrare”. Accadeva di restare fuori. Spesso. Sempre più.

Poi basta. Il nucleo originario cambia veste. “Sono stato il primo a lasciare, era il 1998”, spiega Alberto Molinari. Poi Giorgio, quindi Andrea: “Volevamo uscire al top”. A loro si sostituiscono altri ragazzi affascinati dal suono di quei 180 metri quadri. Ora il Locale non esiste più, ma la suo eco ci accompagna ancora in televisione, al cinema, al teatro o alla radio. Quegli incoscienti di vicolo del Fico sono diventati grandi, intorno a noi.

da Il Fatto Quotidiano del 15 aprile 2013