Cultura

I concorsi della scuola e i quiz della tv. Che fine ha fatto la cultura?

Rimbalzano in rete lamentele multiple sulle prove per l’accesso ai TFA (Tirocini Formativi Attivi), corsi di preparazione all’insegnamento nelle scuole secondarie. Sono in corso in questi giorni le prove pre-selettive preparate dal Ministero, superando le quali i candidati potranno sostenere ulteriori prove scritte e orali. Sotto accusa sono molte cose: da errori grossolani nella compilazione dei quiz al fatto che in qualche caso sono state ripescate, senza nessuna fantasia, domande già formulate per precedenti concorsi, sia pure non TFA, fino al mancato coinvolgimento di specialisti universitari nell’elaborazione dei quiz.

Le proteste sono in gran parte fondate, ma al di là dei fatti specifici tutta la vicenda mette in evidenza alcune linee generali che devono far riflettere sui modelli di sviluppo della formazione e della cultura che oggi sono perseguiti in Italia.

C’è un dato eclatante: alcune classi di concorso hanno avuto una percentuale infima di ammessi alle fasi successive. Per Filosofia, su base nazionale, sono stati ammessi 144 candidati a fronte di ben 4091 respinti. Il 96,60 per cento dei candidati è stato giudicato, secondo questi quiz, indegno di insegnare in una scuola. Se i quiz fossero affidabili, dovremmo porci una domanda ovvia: che razza di laureati escono dalle università italiane? Sono tutti filosofi asini coloro che escono da università anche prestigiose? Oppure dobbiamo pensare (magari!) che i filosofi migliori sono tutti catturati dalle aziende e dal mercato privato e alla povera scuola pubblica non resta che la terza o quarta scelta? E ancora: a che pro laureare oltre quattromila persone che poi non potranno entrare nel mercato del lavoro sulla base della loro laurea?

Il fatto è che la vicenda dei quiz-killer lascia intravedere altri problemi, troppo a lungo trascurati. In primo luogo: che razza di cultura è quella dei quiz, per la quale si decide se un candidato potrà pretendere o meno di fare l’insegnante sulla base di prove puramente nozionistiche (date di bolle papali, editori che hanno rifiutato certi romanzi, ecc.)? Per esempio, se si deve accertare una qualche competenza della civiltà francese non si chiede di provare una conoscenza anche minima della musica prodotta in quel paese (che so, da Berlioz a Debussy). No, si chiede invece in quale arrondissement di Parigi si trova la vecchia Opéra Garnier (nemmeno la nuova di Bastille, che un melomane ha più possibilità di frequentare oggi). Cioè: il modello perverso imposto dal sistema “culturale”-televisivo del berlusconismo ha ormai contaminato anche i centri che dovrebbero formare un sapere critico. Il problema è lo stesso che spesso ho sollevato riguardo al consumo sempre più omologato di cinema: il fast-food culturale si è sostituito al cibo elaborato, alla cultura della diversità.

C’è poi un secondo aspetto della questione, che riguarda la valorizzazione dei laureati: è possibile che per accedere all’insegnamento si debbano conoscere nozioni cervellotiche e non si privilegino invece titoli ben più pesanti e “costosi” in termini di fatica, di impegno intellettuale, di studio (e anche di soldi) come quelli di dottorato di ricerca? E’ possibile, ad esempio, che un laureato della Normale di Pisa, magari pure fornito di Perfezionamento (che è il dottorato erogato dalla Normale) non si veda riconosciuta nel mercato del lavoro la professionalità acquisita e, se vuole insegnare, sia di fatto costretto a giocare con quiz simil-televisivi?

Non è umiliante per il concetto di cultura, per la promozione di una scuola che ambisse a esser capace di costituire l’asse portante di una rinascita del paese, dover fare i conti con queste forme di pseudo-selezione? E’ possibile che nemmeno con un governo di professori nessuno in sede parlamentare, politica, ministeriale ponga mai frontalmente il problema della valorizzazione delle competenze? Gramsci scriveva che occorreva “disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare […] Questa forma di cultura […] serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri”. Invece, osservava Gramsci, “la cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri”. Non sarebbe l’ora che al Ministero dell’Istruzione qualcuno rileggesse Gramsci?