Società

Se le case farmaceutiche scoprono gli open data

Quando, prima al mondo, Ilaria Capua e il suo gruppo di lavoro dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie, nel 2006, riescono a isolare il virus dell’aviaria, la prima cosa che gli viene proposta è di mettere i risultati al sicuro in una banca dati superblindata dove ha accesso solo la superélite internazionale della ricerca scientifica, della quale sarebbe automaticamente diventata parte integrante. Ma la dottoressa Capua non è tipa da jet-set, è una ricercatrice pubblica, e pubblici vuole che siano tutti i suoi risultati. Spiazzando tutti, decide quindi di pubblicarli in una banca dati liberamente e gratuitamente accessibile (e quindi utilizzabile) da tutta la comunità scientifica. Una rivoluzione.

Nell’ultimo post abbiamo parlato di Linux e di software Open Source, ma il software non è il monopolista della filosofia “open”. Tutto può essere “open”, soprattutto tutto quello che si basa su conoscenza e informazioni più che sull’aspetto materiale della produzione.

E “aprire” le proprie informazioni, a volte, non è questione di buon cuore, ma di opportunità, perché permette di coinvolgere una comunità molto vasta nella ricerca delle soluzioni. L’hanno capito anche dalle parti di Big Pharma. In principio fu Novartis, che nel 2009 rese pubblici i suoi studi su quali dei 20 mila0 geni identificati dal progetto Genoma Umano avevano a che fare col diabete. Poi fu la volta di Glaxo-SmithKline, che nel 2010 rese liberamente accessibili tutte le informazioni in suo possesso su 13.500 composti chimici selezionati per il loro potenziale contro la malaria. La speranza era che l’intelligenza diffusa della comunità scientifica globale fosse più potente di qualsiasi gruppo di ricercatori dedicati. Oppure era semplicemente un modo per lavarsi le mani da un business poco proficuo come quello della malaria, che è la malattia dei poveracci.

Fatto sta che giorno dopo giorno comincia a farsi pressante un quesito: competere è davvero meglio che cooperare? Il modello basato su investimenti milionari in ricerca seguiti da investimenti miliardari in tutela della proprietà intellettuale e marketing non è che comincia a mostrare la corda?

Sembra pensarla così Stephen Friend. Dopo aver guadagnato centinaia di milioni di dollari vendendo la sua Rosetta Inpharmatics (una compagnia di analisi del genoma ) a Merck, e dopo aver provato a rivoluzionare il modo di funzionare delle multinazionali del farmaco dall’interno, il dottor Friend alla fine si è deciso a investire tutti i suoi quattrini in una fondazione no-profit dal nome Sage Bionetworks, il Linux della biologia, perché “la comprensione della biologia umana richiede una nuova visione dell’innovazione basata sul libero accesso e su una nuova cultura della cooperazione”.

Quando un modello produttivo entra in contrasto con le forze produttive che lo hanno animato, bloccandone lo sviluppo invece di favorirlo, sarebbe l’ora di sostituirlo con qualcosa di più avanzato. Forse si avvicina l’ora in cui la cooperazione prenderà il posto della competizione?