Cultura

The Hunter, caccia all’Iran

Iran oggi, la caccia non finisce: già al Festival di Berlino e Torino, The Hunter di Rafi Pitts è una sorta di Fuggitivo in farsi, soprattutto un ottimo film, “nato – dice il regista – dalla rabbia contro il sistema e dall’amore per l’umano”.

Senza didascalismi né agenda politica pret-à-porter, il finale è aperto e l’ambiguità tanta, perché “il 70% dell’Iran è sotto i 30 anni e io, Jafar Panahi, Bhaman Ghobadi e molti altri siamo uno tsunami: la nostra sarà pure la generazione no future, ma l’avvenire è nostro”. E differente da quello di Kiarostami: “Abbas è saggio, poetico e lo rispetto, ma appartiene a un’altra generazione. E a un altro mondo”.

E’ lo stesso Pitts a interpretare il protagonista Alì, che, uscito dal carcere, si divide tra la passione per la caccia e, soprattutto, quella per moglie e figlia. Ma non vivranno felici e contenti: Ali perde entrambe, la sposa colpita da un “proiettile vagante” durante una manifestazione, la piccola scomparsa. Indaga, legittimamente chiede risposte. Non le ha: la polizia è muta e aggressiva, il dolore sordo e la vendetta bussa. Stile Jfk, imbraccia il fucile e spara da una collina: due poliziotti rimangono stecchiti, lui inizia la fuga. Viene preso, si innesca un triangolo con i due agenti e spunta un’inversione di ruoli: chi è preda, chi cacciatore?

Dimenticavamo, siamo a Teheran, ma potremmo ometterlo: non perché il regista Rafi Pitts lo camuffi, ma perché The Hunter è autenticamente glocal e stride con l’immaginario cinematografico ultimo scorso. Già, non è un paese per vecchi l’Iran, soprattutto non è di sole capre, pecore e campagne: la capitale è una metropoli, che Pitts indaga con campi lunghi sul traffico e la macchina in fuga, campi medi su crocicchi e incroci, sonoro urbano, a servire le geometrie variabili della vendetta. Che terminerà tra i boschi, la pioggia e lo scambio di divisa, mentre nel fuoricampo interno, si sente – e si vede – la lezione di Monte Hellman e dei grandi arrabbiati del cinema americano Seventies: su tutti, Don Siegel e il suo Dirty Harry, alias ispettore Callaghan, nello scontro tra legge e Legge, giustizia privata e ingiustizia pubblica, sul basso continuo della vendetta.

Dunque, il thriller è servito, e dice molto dell’Iran oggi, soprattutto di quel che non diremmo al riguardo: il contenuto metropolitano è sorretto da uno stile con la S maiuscola, con dialoghi senza sproloqui, tallonamento “reale” ma non neorealistico, fertile dialettica tra calligrafia d’autore e ortografia di genere, controllo quasi dittatoriale su visivo e sonoro. Se consideriamo che Rafi Pitts, classe ’67, presente parigino ma l’Iran dentro, è anche sceneggiatore e attore protagonista, forse di caccia ne è iniziata un’altra: quella all’Autore.