Cinema

Il cinema italiano <br>che sa di regime

Mio figlio, stavolta quello più grande, nove anni, va a Scuola Calcio. Alla Fortitudo Roma a piazza Epiro, un campo antico, di quelli ancora di terra e sassi, di quelli in cui il pallone rimbalza sempre in maniera irregolare, di quelli che quando cadi come è caduto ieri mio figlio ti fai una ferita profonda un centimetro sul ginocchio che poi ti fa male tre giorni almeno, di quelli non ancora sepolti da erbe sintetiche di quarta o quinta o sesta generazione che sempre cancerogene sono.

Io, produttore cinematografico indipendente, tra gli ormai pochissimi privilegi offerti dalla mia professione, quando posso, cioè quasi sempre, vado al campo di terra e sassi e guardo affascinato gli esercizi dei bambini che imparano a stoppare il pallone, a calciare di sinistro se sono destri naturali e di destro se sono sinistri naturali, ad avanzare palla al piede a testa alta, a incrociare il tiro, a esultare in qualche maniera strana vista in televisione quando in partitella fanno gol.

Quando sto al campo di terra e sassi guardo i bambini e ascolto, un po’ defilato – snobismo o timidezza vallo a sapere – le tante mamme e i pochi papà che sono lì con me. Ieri due mamme, quelle più vicine a me, quelle che riuscivo a sentire meglio dall’unico orecchio, il destro, da cui sento,  non parlavano di compiti o di stanchezze o di catechismi o di maestre o di prime comunioni o di scampagnate domenicali o di Totti che sabato sera ha segnato un’altra doppietta. Ieri quelle due mamme parlavano del film bulgaro, quello dell’amica di Berlusconi, che gli ha fatto avere un milione di euro dalla televisione. E che a loro, che lo erano andate a vedere sabato pomeriggio, non era piaciuto per niente.

Se mio figlio, malgrado la ferita sanguinante al ginocchio, non si fosse involato sulla destra e se io fossi stato diverso, un po’ meno snob o forse più semplicemente un po’ meno timido, mi sarei inserito nel discorso. E allora avrei gridato forte la mia indignazione per quel milione di euro, per quel premio inventato alla Mostra di Venezia, per quel futuro ministro della Cultura a fare gli onori di casa, per quelle dichiarazioni arrendevoli rilasciate al Fatto Quotidiano dai vertici di Raicinema, per le centinaia di manifesti, parapedonali e flani, che poi sarebbe la pubblicità quella tipo con il manifesto del film che si mette  sui giornali, pagati da 01, che sempre Rai è, per distribuire le ottanta copie distribuite nelle sale. E già che c’ero avrei ampliato il discorso.

Perché, care mamme dei compagni di scuola calcio di mio figlio che sta andando dritto palla al piede verso la porta avversaria, in fondo noi che facciamo cinema e che abbiamo deciso di avere come interlocutore privilegiato il polo Raicinema, perché l’altro non ci piace perché sa di Silvio Berlusconi di conflitto d’interesse di regime, ne abbiamo viste e subite di peggio: film mai usciti in sala e mai mandati in onda acquistati per centinaia di migliaia di euro grazie all’intercessione di uno dei personaggi raccontati così bene da Sorrentino nel Divo, film bocciati con decisione ma comunque sostenuti per intercessione di funzionari e dirigenti di varia natura e provenienza, film comprati perché si doveva salvare il produttore, film bocciati e derisi che poi diventavano capolavori quando un festival importante li premiava, film che se prendete quell’attore vi diamo centomila euro di più, film scritti da veri autori che non ci convincono detto un po’ con la puzza sotto il naso, film che in questo momento non si possono fare, film che in questo momento si devono fare e finisce che sono tutti uguali quelli che si fanno, film che è meglio se modifichi il finale e lo fai più consolatorio, film che è meglio se è una commedia.

Fatto sta, però, che non mi sono inserito nel discorso e queste cose alle due mamme non le ho dette. Anche perché intanto mio figlio ha fatto gol. E allora sono state loro, le due mamme, che hanno smesso di parlare del film bulgaro e  si sono rivolte a me, dicendomi che Luca, mio figlio, quello più grande, è proprio bravo. Io ho annuito sorridendo e in silenzio ho abbassato lo sguardo.

Sarà stata la solita timidezza.

Oppure vergogna.