Cultura

La zona d’ombra, storia di Beppe Alfano

La copertina del libro "La zona d'ombra" di Sonia AlfanoDi seguito l’introduzione al mio libro La zona d’ombra. La lezione di mio padre ucciso dalla mafia e abbandonato dallo Stato (Rizzoli) in uscita oggi in tutte le librerie:

L’orologio alla parete segna le 21. Mia madre stende la tovaglia sul tavolo della cucina e mi allunga i piatti. Per un attimo, mi fermo davanti alla finestra e guardo in strada: non c’è un’anima, e non perché sia novembre. A Barcellona Pozzo di Gotto è la norma: da una certa ora in poi è deserta, una specie di coprifuoco la trasforma in una città fantasma. Sono loro a volerla così, per aggirarsi indisturbati e farla da padroni.

Sento scattare la serratura della porta di casa, poi il tintinnio delle chiavi posate sul mobile dell’ingresso e la sua voce che saluta: mio padre è tornato. Ma stasera non si ferma a darci un bacio: si infila in corridoio a testa bassa, il volto più pensieroso del solito. Avrà fatto tardi per raccogliere qualche nuova informazione per una delle sue inchieste. Mi chiama dalla stanza dove spesso lavoriamo assieme al computer. Mollo le stoviglie e vado da lui.

La camera è immersa nella penombra: ha acceso solo la lampada da tavolo, che con il suo cono di luce illumina il piano della scrivania ingombro di carte. Lui è in piedi, di spalle, rivolto verso la finestra, le mani affondate nelle tasche. «Ho visto Mostaccio, stasera» dice senza voltarsi. «E che ti ha detto?» «Mi ha offerto trentanove milioni per non scrivere più dell’Aias.»

Trentanove milioni di lire, proprio quella cifra. Allora non può essere un caso. Lo penso, ma non dico nulla. Invece gli chiedo: «Che hai fatto? Li hai rifiutati?». Annuisce, ma poi fa una lunga pausa, come se cercasse le parole: «Mi ha detto che non arriverò al 20 gennaio».

D’istinto con la mano cerco lo schienale di una sedia e lo stringo. «Papà, secondo me ti stai facendo un film. Stai esagerando, stai andando troppo oltre.» Silenzio.

Mostaccio gli ha già «consigliato» di «volere più bene» alla sua associazione, ma questo cos’è? Un ulteriore avvertimento? Una minaccia per spaventarlo? Con i suoi articoli, mio padre sta dando sempre più fastidio a un sacco di gente, ed è già capitato che lo mettessero in guardia. Ma stavolta è troppo grave, non voglio crederci. Sono certa che stia sopravvalutando la cosa, probabilmente si lascia impressionare perché è stanco.

Se invece fosse tutto vero?

«Perché non ci pensi?» mi sento di dire. Il cuore batte perfino più veloce dei pensieri terribili che mi attraversano la mente. Continua a fissare un punto nel buio, fuori dal vetro, sembra inerte: lo devo difendere, non si rende conto. Non voglio che faccia sciocchezze. Ho ventun anni e dentro scoppio di rabbia e di paura. Una paura che non so come combattere, molto più grande delle mie forze.

«Perché non li prendi, questi soldi?…» insisto. E più che un consiglio è una supplica. Si gira verso di me; i suoi occhi mi fulminano: «Come puoi pensare una cosa del genere? Io non posso accettare quel denaro! Io devo continuare a scrivere». Anche la sua è rabbia. E paura. Restiamo a guardarci in silenzio. Mio padre non dice più nulla. Capisce di essere rimasto solo. L’ho appena abbandonato anch’io.