Cultura

Da Mitterand a Berlusconi, la successione <br> in democrazia

Bernard Manin, professore di Scienza politica alla New York University ha appena pubblicato in Italia il libro “Principi del governo rappresentativo" per Il Mulino

“Quello che mi ha sempre colpito di più della democrazia è la sua duttilità, la capacità di evolversi sempre ma conservando una continuità di cui spesso fatichiamo ad accorgerci”. Bernard Manin, 59 anni, è professore di Scienza politica alla New York University, scelto per la lettura annuale dell’associazione Il Mulino che si è tenuta nel weekend a Bologna. E le edizioni del Mulino hanno appena pubblicato in Italia il suo libro più importante, “Principi del governo rappresentativo”, un titolo molto accademico per un grande racconto di come è cambiata la nostra idea – e quindi la nostra prassi – della democrazia. Dall’Atene dove quella che chiamiamo di solito “democrazia diretta” si sviluppava in un complesso sistema di scelta a sorteggio dei funzionari, per assicurare una reale rappresentanza della società, all’affermarsi progressivo delle elezioni, di cui non percepiamo più da tempo il carattere aristocratico denunciato anche da Rousseau. Le elezioni premiano i “migliori”, spiega Manin, cioè quelli che si distinguono per almeno una caratteristica dalla massa, quindi per definizione gli eletti non sono scelti a immagine e somiglianza dagli elettori. L’ultima evoluzione è quella dalla democrazia dei partiti a quella che Manin chiama “del pubblico”, dove cioè a decidere chi sono i rappresentanti non è più un apparato di partito (almeno in genere, in Italia le cose sono un po’ distorte) ma l’interazione tra opinione pubblica, sondaggi, carisma del leader. Si capisce così, e il messaggio può suonare poco rassicurante, che l’ascesa di Silvio Berlusconi non è un’anomalia italiana, ma un evento che si inserisce nell’evoluzione della democrazia rappresentativa, nella sua fase attuale di “democrazia del pubblico”. E dopo?

Professor Manin, in quella che lei chiama “democrazia del pubblico”, i partiti che non sono più i protagonisti, ma conservano un ruolo decisivo. Possono sopravvivere all’uscita di scena di un leader forte, come è stato Berlusconi per Forza Italia prima e per il Pdl poi?
La questione fondamentale è capire se il partito ha servito il leader o se si è troppo identificato con la sua ascesa per vivere senza di lui. L’arrivo di Berlusconi e il suo successo è uno dei fenomeni resi possibili dalla transizione da democrazia dei partiti a quella del pubblico. Ma per capire cosa può succedere “dopo” è utile guardare all’estero. Prendiamo il caso di Tony Blair: il partito laburista inglese non è stato creato da Blair, ma lui ne ha rimodellato a sua immagine sia l’organizzazione che la composizione, dell’elettorato e degli eletti, e queste modifiche resistono alla fine dell’esperienza politica del leader. Il partito può sopravvivere quando non si è trasformato soltanto in uno strumento al servizio del leader, ma è rimasto uno centro di aggregazione e di diffusione di idee. Anche perché dopo l’uscita di scena di un leader molto personalista, i partiti tendono naturalmente a perdere le elezioni, ad aumentare la propensione alla scissione, a entrare in crisi, insomma: basta vedere quanto è stata difficile la successione a François Mitterrand nel Partito socialista francese. Di fatto non è ancora finita.

La differenza, però, è che il Popolo della libertà è stato creato da Berlusconi, il Ps esisteva prima di Mitterand.
E’ vero, ma non bisogna dimenticare che Mitterand ha svolto un ruolo di federatore e costruttore. Già nel 1965 sfidava Charles De Gaulle per la presidenza, ma è riuscito ad andare soltanto nel 1981, quasi vent’anni dopo. Quindi si può ben dire che il Partito socialista moderno è stato in gran parte l’opera, anche se non la creatura, di Mitterand.

Nei suoi studi più recenti lei si occupa dell’effetto che hanno i media nell’evoluzione della “democrazia del pubblico”. Hanno un impatto sulla qualità della democrazia?
Una delle trasformazioni fondamentali dei mezzi di comunicazione che sta già avendo le ripercussioni più concrete è l’espansione della tv via cavo, soprattutto negli Stati Uniti. In Italia qualcosa di simile può accadere con il satellite o con il digitale terrestre. Con questa nuova offerta ciascuno può scegliere canali e trasmissioni perfettamente coerenti con le proprie idee politiche. E, se lo vuole, anche vivere senza imbattersi mai nelle notizie, guardando solo canali tematici di intrattenimento. Si verifica così una frammentazione dello spazio pubblico che io considero uno dei grandi pericoli di questi tempi: aumentano la divisioni, con persone rinchiuse in enclave in cui sono isolate da opinioni diverse dalle proprie. Internet rischia di accentuare questa tendenza, invece di limitarla. Per questo credo che i grandi dibattiti in campagna elettorale tra candidati siano così importanti, rappresentano una delle poche occasioni in cui si riesce a ricomporre uno spazio politico condiviso, con gran parte della popolazione che guarda la stessa cosa e il giorno dopo discute e si confronta sugli stessi temi.

Ci sono già conseguenze concrete di questa frammentazione dello spazio politico?
Si assiste a una radicalizzazione delle posizione,lo dimostra il successo dei Tea party negli Stati Uniti. Si rischia di arrivare al punto in cui le differenti categorie di cittadini non si incontrano più, con una separazione anche fisica nei quartieri. Aumenta l’ostilità, perché è più facile temere e odiare qualcuno che non si conosce. Ma è troppo presto per dare un giudizio definitivo di queste evoluzioni nei media. Soltanto ora, dopo più di sessant’anni, cominciamo ad avere un’idea chiara delle conseguenze dell’arrivo della televisione nello spazio politico. I media cambiano i comportamenti elettorali più lentamente delle preferenze di consumo che si evolvono invece in fretta e sono più facili da misurare.

Lei non ama formule come “crisi della democrazia”, ma è d’accordo che si può parlare almeno di democrazie di qualità superiore e di altre un po’ avariate?
Questi confronti sono legittimi. Si possono stabilire dei criteri oggettivi per misurare la qualità di una democrazia. Quella americana, per esempio, varia di qualità a seconda di quanto pesa il denaro nella competizione elettorale: “the curse of money”, la maledizione dei soldi. Ed è una maledizione auto inflitta. La Corte suprema in giugno ha deciso di degradare la qualità della democrazia liberalizzando i contributi delle imprese alle campagne elettorali. Anche Obama, e non gli fa onore, ha scelto di non richiedere il finanziamento pubblico alla campagna per non avere tetti di spesa da rispettare. In Europa la situazione è un po’ meno netta, ma in Inghilterra c’è un finanziamento pubblico ai partiti che funziona molto bene, in Francia e in Italia invece lo Stato non riesce a controllare il ruolo della ricchezza personale dei candidati, nonostante la presenza del meccanismo dei rimborsi elettorali ai partiti.

Nonostante questo i più poveri continuano a votare per i più ricchi. Berlusconi non vincerebbe senza i voti degli operai, per esempio.
I più ricchi hanno sempre sovrastimato la minaccia che avrebbe avuto un allargamento della base elettorale, pensando che le classi sociali escluse dal voto avessero un potenziale rivoluzionario che poi non hanno mai dimostrato di possedere. I poveri, insomma, non votano per i poveri. E questo è un grande mistero delle scienze sociali. E’ un fatto che le politiche redistributive non sono aumentate all’espandersi della base elettorale, come sarebbe stato logico aspettarsi. Al contrario, è cresciuta la tolleranza per le disuguaglianze. Una delle possibili spiegazioni è che gli elettori votino considerando più la percezione che hanno della situazione economica generale che della propria, con l’idea che quanto di buono arriva ai ricchi prima o più finirà per arrivare anche a loro.

Le elezioni, quindi, assumono sempre più un carattere aristocratico. Forse il loro ruolo in democrazia è ormai sovrastimato, non sono più il momento decisivo?
Oltre alle elezioni si sono sviluppati altri meccanismi di partecipazione democratica: petizioni, referendum, boicottaggi, azioni giudiziarie. Quindi, in un certo senso, il peso delle elezioni si è almeno relativamente ridotto perché abbiamo moltiplicato i meccanismi che permettono ai cittadini di avere un impatto sulle decisioni collettive. Ma le elezioni restano il cardine della nostra democrazia rappresentativa, soprattutto per il loro carattere di imprevidibilità: se non ci fosse la possibilità di mandare a casa chi governa con il voto, tutto il resto sarebbe inutile o quasi.

Però potrebbe essere un’idea recuperare l’estrazione a sorte almeno per certe cariche, così da evitare la lottizzazione, magari individuando un’insieme di persone idonee al ruolo tra cui sorteggiare. Per esempio per le authorithy o il Consiglio superiore della magistratura.
A livello locale si notano alcuni casi di ritorno all’estrazione a sorte. Ma per altre cariche, come quelle delle autorità indipendenti, si porrebbe sempre un problema insormontabile. Non c’è quella che in inglese si chiama accountability: chi viene estratto a sorte non è cioè tenuto a rispondere se commette degli errori o se abusa del proprio potere.

La crisi finanziaria potrebbe accelerare una nuova evoluzione del governo rappresentativo?
Sì, qualcosa sta cambiando e non per il meglio. Bisogna osservare i numerosi episodi di rabbia contro i banchieri, la rivolta simultanea contro gli autori della crisi finanziaria e contro i governi che devono ridurre la spesa sociale per salvare le banche. La sconfitta dei Democratici e di Barack Obama alle elezioni americane in novembre si spiega anche così. Noi europei ci stiamo trovando nella situazione in cui per salvare il sistema finanziario abbiamo finito per rimettere in discussione la caratteristica fondamentale dell’Europa, lo stato sociale. Questa scelta rischia di essere un vero suicidio. L’euro l’Europa non devono fare l’errore di dare la propria sopravvivenza per scontata.