
Il bilancio di assoluto nullismo dei tre anni dell’attuale esecutivo, guidato da una sguaiata venditrice di fumo, precipita il campo opposto (che un minimo di pudore intellettuale recalcitra all’idea di definirlo “Sinistra”) nel disorientamento. L’abituale, permanente, crisi di identità. Ma come? L’aureo manuale “Sfangarsela in politica, da Massimo D’Alema a Matteo Renzi” prevede esplicitamente il rapporto inversamente proporzionale tra la tenuta di una compagine governativa e il mancato mantenimento delle promesse elettorali. Eppure, a fronte di un computo clamorosamente fallimentare già sul piano socio-economico (crescita delle diseguaglianze e proletarizzazione crescente delle famiglie, disoccupazione giovanile montante a fronte di un declino industriale inarrestabile, sbaraccamento del Sistema Sanitario Nazionale nella più generale anemizzazione dello Stato Sociale, e via andare), i sondaggi continuano a registrare ranking in crescita per Giorgia Meloni e il suo squinternato team.
Dunque, il mistero di un andamento del consenso a dir poco inspiegabile per gli affranti consigliori di parte avversa, le cui ricette mi appaiono un’accozzaglia di banalità: dallo Stefano Feltri, che suggerirebbe di inchiodare la premier alla sua palese incompetenza in materia di flussi finanziari (orrore: “ignora cos’è lo spread”. Come la stragrande maggioranza dei non bocconiani), ai geometri del campo largo, che ne fanno una questione di mancato coordinamento organizzativo del carro di Tespi chiamato opposizione (il vecchio luogo comune del “uniti si vince”, nel gioco politico dove uno più uno fa uno e mezzo. Mai due). Argomenti elusivi delle ragioni che cementano il blocco meloniano, in parte comunicative, in parte legate alla psicologia di massa.
Nel primo caso si tratta di ciò che potremmo definire la profanazione del santuario delle idee su cui si basava la politica dal tempo delle rivoluzioni settecentesche: lo smantellamento delle sue storiche architravi, a cui la destra internazionale si è dedicata per decenni, al fine di avviare la contro-rivoluzione reazionaria con l’avvento del duo Reagan-Thatcher: democrazia, rappresentanza, coesione sociale.
Difatti il venerando principio democratico, da secoli punto fermo della Modernità occidentale, al passaggio Post-Moderno è stato trasformato dall’economicismo imperante in uno screditato ferrovecchio. Già nel 1976 la ben nota commissione Trilateral ne abbatteva gli antemurali protettivi insinuando il dubbio – sino ad allora inaudito – della sua incompatibilità con la moltiplicazione dei profitti. Premessa al definitivo divorzio tra democrazia e capitalismo.
Quanto all’istanza rappresentativa, intesa come sottomissione del potere all’ispezionabilità e partecipazione alle scelte collettive attraverso il dibattito pubblico, la sistematica propaganda delle priorità efficientistiche ha da tempo indirizzato le rotte della politica verso la maggiore apprezzabilità di un solo potere – l’esecutivo – al fine di ottenere decisioni rapide, che non impiccino decisori sempre più autocratici.
Quanto poi concerne la coesione, questa oggi la si ottiene a buon mercato utilizzando la potenza di fuoco della propaganda. Arma che ha consentito la liquidazione della stagione progressista attraverso la demonizzazione del suo primo vanto e merito: il Welfare. Operazione andata a buon (miserevole) fine convincendo – a mezzo slogan ingannevoli – i beneficiati dai servizi sociali di esserne in realtà le vittime; dunque, prosciugando il canale di alimentazione rappresentato dalla fiscalità: la tassazione dei redditi. Strumento re-distributivo svilito alla gag di una banda di burocrati scippatori che “ti mettono le mani in tasca”. Slogan Made in Ua importato da Silvio Berlusconi, con la variazione sul tema introdotta da Meloni a Palermo, la città di Libero Grassi: le tasse come “pizzo di Stato”.
Ma è grazie a queste canagliate comunicative che la Destra ha imposto la sua egemonia sulla psiche collettiva. Anche per la passivizzazione del contrapposto schieramento, silente e – prima ancora – pronto a recepire la lezione di chi lo scalzava. A mia memoria ricordo solo la voce isolata quanto intrisa di passione civica del grand commis Tommaso Padoa-Schioppa, che nell’ottobre 2007 dichiarava: “dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa civilissima”. Ma ormai la frittata era fatta.
Le gattemorte ex welfariane avevano offerto agli avversari il formidabile vantaggio di lucrare del Fattore A: la propria antipatia. Per cui larga parte dei ceti medi percepisce che la cosiddetta “Sinistra alla moda” disprezza il suo elettorato storico, considerato incolto e rozzo, vivendo in un proprio mondo avulso dalle miserie quotidiane. Una spocchia che induce insofferenza e – di conseguenza – palese soddisfazione quando la Meloni e i suoi mazzieri svillaneggiano – qualunque sia il contesto – questi spocchiosi utenti della politica quale ascensore sociale. Con insensati effetti virali. Tipo l’applauso complice della platea di Atreju alla proterva ministra Bernini, che con le sue labbra a canotto derideva studenti contestatori al grido di “comunisti inutili”.