
La contrattazione non può essere ridotta a una leva redistributiva, ma deve diventare uno strumento di governo delle risorse umane
La contrattazione pubblica è uno degli strumenti centrali attraverso cui la Pubblica Amministrazione governa i rapporti di lavoro e l’organizzazione interna. Nella sua impostazione, dovrebbe consentire di adattare le regole generali alle esigenze concrete degli enti, valorizzando competenze e obiettivi. Nella pratica, però, la contrattazione fatica spesso a svolgere questa funzione, rimanendo compressa tra rigidità procedurali e un diffuso immobilismo negoziale.
Il sistema è articolato su due livelli. La contrattazione collettiva nazionale, affidata all’Aran, definisce il quadro di riferimento comune. La contrattazione integrativa, svolta nelle singole amministrazioni, è chiamata a declinare tali principi in relazione ai contesti organizzativi. È su questo secondo livello che si concentra il maggiore potenziale di innovazione, ma anche il maggior numero di criticità.
In molti enti, la contrattazione integrativa si riduce a un esercizio prevalentemente formale. Il confronto si concentra quasi esclusivamente sulla distribuzione delle risorse accessorie, mentre restano marginali i temi legati all’organizzazione del lavoro, alla performance e ai fabbisogni professionali. Ne deriva una contrattazione ripetitiva, poco connessa alla programmazione e con un impatto limitato sulla qualità del funzionamento dell’amministrazione.
Le cause sono in parte strutturali. Il peso dei controlli, le verifiche di legittimità e il timore della responsabilità amministrativa spingono le amministrazioni verso soluzioni prudenti. In questo contesto, l’innovazione negoziale viene percepita come un rischio più che come un’opportunità. La burocrazia finisce così per orientare il confronto verso la conservazione degli assetti esistenti.
Incide anche la frammentazione delle relazioni sindacali. La pluralità degli attori rende il negoziato complesso e spesso difensivo. In assenza di una chiara cornice di obiettivi condivisi, il tavolo contrattuale tende a concentrarsi sulla tutela dell’esistente, piuttosto che sulla costruzione di soluzioni organizzative nuove.
Nel mio contributo su LentePubblica dedicato alla contrattazione integrativa nella Pa, ho evidenziato come questo strumento possa essere realmente efficace solo se inserito in modo coerente nel ciclo di programmazione dell’amministrazione. La contrattazione dovrebbe dialogare con il piano della performance, con la programmazione dei fabbisogni e con le strategie di sviluppo del personale. Senza questo raccordo, resta un passaggio isolato.
I dati più recenti mostrano un aumento del numero di accordi integrativi stipulati. La contrattazione, dunque, è formalmente attiva. Il problema riguarda la qualità dei contenuti e la capacità degli accordi di incidere sull’organizzazione. D’altronde, più quantità non significa necessariamente più efficacia.
Superare l’immobilismo non richiede scorciatoie normative, ma un cambio di approccio. Serve rafforzare le competenze della parte pubblica nella fase preparatoria del negoziato, migliorare la trasparenza delle informazioni e promuovere una logica di corresponsabilità sui risultati. La contrattazione non può essere ridotta a una leva redistributiva, ma deve diventare uno strumento di governo delle risorse umane.
In definitiva, la contrattazione pubblica non è un rito burocratico né un terreno esclusivamente difensivo. Se utilizzata in modo consapevole, può contribuire alla modernizzazione delle amministrazioni e al miglioramento dei servizi. La vera sfida è spostare il baricentro dalla gestione dell’esistente alla capacità di orientare il cambiamento, restituendo alla contrattazione un ruolo pienamente istituzionale e strategico.