Economia

Cresce la liquidità degli italiani, ma resta ferma sui conti correnti. E non è un buon segno

L’Italia “piena” di liquidità esiste solo nei titoli dei giornali: i 2.046 miliardi crescono perché restano parcheggiati in banca, dove non rendono nulla. Un segno di timore più che di fiducia

Basta sfogliare i giornali degli ultimi mesi per avere l’impressione che l’Italia stia migliorando su ogni fronte. Un mese fa, su queste pagine, avevo affrontato il tema della crescita del credito alle famiglie che veniva salutato con giubilo solo da chi non si era, volutamente, soffermato su un dettaglio banale: con i salari che arrancano, una rata in tasca riduce ancora di più il potere d’acquisto.

Oggi ci concentriamo sull’altro cavallo di battaglia degli ultimi giorni: l’Italia sarebbe un Paese con più liquidità e dunque più risparmio. Un Paese che torna “pieno”. Poi però ti fermi sui numeri, e ti accorgi che la storia è meno trionfale e più banale: il totale sale su base annua, ma rispetto al picco di fine 2022 resta più basso. E soprattutto la liquidità cresce dove rende meno, cioè ferma sui conti correnti.

Secondo l’elaborazione del Centro Studi Unimpresa su dati Banca d’Italia, tra ottobre 2024 e ottobre 2025 la liquidità complessiva detenuta da famiglie e imprese è salita da 1.988,6 a 2.046,5 miliardi di euro (+57,9 miliardi, +2,9%).

Il dato è reale. Ma è altrettanto reale il motore di questa crescita: sono i conti correnti, arrivati a 1.379,7 miliardi (+4,5%, circa +60 miliardi). Nel frattempo, i depositi vincolati scendono a 237,5 miliardi (-8,6%, circa -22,3 miliardi). Crescono invece i pronti contro termine, che arrivano a 106 miliardi (+16%, +14,6 miliardi) e i depositi rimborsabili con preavviso, che salgono a 323,2 miliardi (+1,8%, +5,6 miliardi).

La fotografia di ottobre 2025 racconta, quindi, anche la “forma” di questa ricchezza liquida: il 67,4% è sui conti correnti, il 15,8% nei depositi con preavviso, l’11,6% nei vincolati e il 5,2% nei pronti contro termine. Traduzione: gli italiani tengono i soldi “pronti” più che “investiti”. La quota dominante sui conti correnti significa disponibilità immediata, sì, ma anche rendimento vicino allo zero rispetto all’inflazione reale degli ultimi anni. È liquidità che non lavora, non protegge, non compensa. Serve soprattutto a sentirsi coperti: bollette imprevedibili, spese mediche, imprevisti domestici, rate, tasse, mesi in cui il lavoro gira meno.

In altre parole, non è il comportamento di chi vede opportunità e prende rischio per far crescere il capitale. È il comportamento di chi teme un nuovo shock e preferisce pagare un costo invisibile (il mancato rendimento) pur di non perdere controllo. La liquidità diventa un “cuscinetto psicologico” e finanziario: utile, certo, ma tipico delle fasi in cui la fiducia è fragile. Se fosse euforia, vedresti più spostamenti verso strumenti vincolati o investimenti produttivi; qui invece prevale la scelta più semplice e più conservativa: tenere tutto a portata di mano.

Non solo. Il punto che rovina la festa è l’orizzonte temporale. Se invece del confronto annuale si guarda il triennio dicembre 2022-ottobre 2025, la liquidità totale risulta diminuita di 19 miliardi (-0,9%). E la contrazione colpisce proprio i conti correnti: -78,4 miliardi (-5,4%) nel periodo. In mezzo c’è stata la fiammata inflazionistica che ha costretto famiglie e imprese ad attingere ai risparmi per reggere energia, alimentari, servizi e tassi: nei mesi peggiori l’inflazione ha superato il 10% e ad ottobre 2022 l’indice armonizzato ha toccato il 12,6% annuo.

E infatti, sempre secondo Unimpresa, le famiglie risultano il soggetto più “scaricato” dalla crisi: le loro riserve calano di 31,9 miliardi (-2,7%) rispetto al 2022. Le imprese, al contrario, mostrano un leggero incremento (+11 miliardi). Non è un dettaglio: significa che il “totale” può salire anche mentre una parte consistente del Paese reale resta sotto pressione.

Quindi sì, la liquidità “supera quota 2.000 miliardi”. Ma non implica automaticamente più benessere, più investimenti o più fiducia. Implica soprattutto questo: una parte del risparmio è tornata a respirare, ma lo fa parcheggiandosi dove è più semplice e meno redditizio. E dopo l’inflazione, il risparmio parcheggiato non è ricchezza: è tempo comprato a caro prezzo.