
Gli studi rilevano alterazioni genetiche indesiderate, instabilità cromosomiche ed effetti metabolici, e poi episodi di contaminazione verso campi non Ogm e colture resistenti agli erbicidi. Eppure tutto il mondo, Italia compresa, ha deciso di proseguire senza regole
Oltre 3 milioni di ettari coltivati a Ogm in Sudafrica, con percentuali vicine al totale per cotone e poco meno (85% e 95% rispettivamente) per mais e soia; in Colombia gli ettari coltivati con colture transgeniche sono 100.000. In Bangladesh nel 2025 la melanzana Bt (Ogm) è stata adottata da oltre 65.000 agricoltori. È Ogm […]
Oltre 3 milioni di ettari coltivati a Ogm in Sudafrica, con percentuali vicine al totale per cotone e poco meno (85% e 95% rispettivamente) per mais e soia; in Colombia gli ettari coltivati con colture transgeniche sono 100.000. In Bangladesh nel 2025 la melanzana Bt (Ogm) è stata adottata da oltre 65.000 agricoltori. È Ogm anche il cotone BT in India che occupa oltre il 90% dell’area coltivata a cotone.
Sono solo alcuni numeri di una tendenza purtroppo dilagante, che ha portato ad esempio l’Argentina (ma anche il Brasile) a deregolare fin dal 2015 anche le Ngt – ovvero le Nuove Tecniche Genomiche, quelle in cui il Dna non viene estratto come nei “classici” Ogm ma direttamente manipolato – seguita da Australia, Nigeria, India, Regno Unito, Costa Rica, Nuova Zelanda. Ma anche, purtroppo, Europa e tra i paesi europei, con buona pace del sovranismo, l’Italia. In Europa, in particolare, lo scorso 4 dicembre il Trilogo (Parlamento Europeo, il Consiglio dell’Unione Europea e la Commissione Europea) ha approvato la deregolamentazione delle nuove tecniche genomiche, distinguendo tra due categorie di piante, da un lato le Ngt-1, considerate equivalenti alle convenzionali, dall’altro le Ngt-2, che presentano modifiche più complesse o meno assimilabili a quelle che si otterrebbero con i metodi tradizionali. “L’Italia ha seguito questa posizione, addirittura anticipando al 2024 la sperimentazione di queste tecniche, inserite inspiegabilmente in un decreto siccità (D.L. 39/2023)”, afferma Manlio Masucci coautore del Rapporto “Semi di Resistenza. Deregolamentazione degli Ogm e mobilitazione popolare”, lanciato in questi giorni dall’organizzazione Navdanya International, un’organizzazione fondata 30 anni fa in India da Vandana Shiva in difesa della sovranità alimentare e dei semi. “Ma visto che queste tecniche ci consegnano nelle mani delle multinazionali”, continua Masucci, “si tratta esattamente del contrario della sovranità alimentare sbandierata dal governo. Proprio adesso che la cucina italiana viene dichiarata Patrimonio dell’umanità, un amaro paradosso”.
Il Rapporto punta il dito contro la rapida trasformazione globale dei sistemi sementieri e alimentari, spinta dalla deregolamentazione degli Ogm e delle nuove tecniche genomiche (Ngt) “tecniche di evoluzione assistita”. “In tutti i continenti, le norme di biosicurezza e le tutele pubbliche, un tempo considerate barriere essenziali, vengono smantellate”, si legge nel Rapporto. “I sostenitori definiscono le nuove tecniche ‘naturali’ e capaci di creare colture resistenti al cambiamento climatico”. E addirittura, sulla scia del ‘modello argentino’ pretendono che gli organismi modificati tramite gene editing non vengano classificati come Ogm, dunque senza indicarlo in etichetta, per una rapida commercializzazione che non allarmi il consumatore.
“Attualmente però”, continua Masucci, “non esiste alcun consenso scientifico che garantisca la sicurezza di Ogm o Ngt. In nessun modo manipolare il Dna di una pianta produce una pianta ‘naturale’ e infatti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha stabilito, con una sentenza del 2018, che le Ngt debbano essere regolate dall’attuale normativa sugli Ogm”.
Gli studi rilevano alterazioni genetiche indesiderate, instabilità cromosomiche ed effetti metabolici. Non solo, dai dati raccolti le colture presentate come resistenti al clima danno raccolti inferiori o con modifiche ai profili nutrizionali: basti pensare ai livelli di beta-carotene bassi e variabili e che si degradano rapidamente dopo il raccolto del Golden Rice o ai pomodori arricchiti con gene editing. Ma i rischi sono anche altri, ovvero gli episodi di contaminazione verso campi non Ogm (in Messico fino al 33% del mais autoctono risulta contaminato), la perdita radicale di biodiversità, la diffusione di colture resistenti agli erbicidi che favorisce la comparsa di infestanti super resistenti.
Non solo. Esiste un ulteriore e ancor più grave pericolo: questi prodotti, che si vogliono definiti “naturali”, “ricadono nei regimi brevettuali che consentono a gruppi come Corteva, Bayer, Syngenta e altri di espandere il controllo privato su metodi, sequenze genetiche, e persino su varianti spontanee. Con una privatizzazione e brevetto di tratti genetici presenti in specie agricole o spontanee. Ciò che stupisce, soprattutto, è come il principio di precauzione venga meno anche in modelli legislativi come quello della UE, che oggi sta discutendo di rimuovere la valutazione dei rischi, la tracciabilità e l’etichettatura per i prodotti tramite gene editing. “Se fossero lasciati in etichetta, infatti, non li comprerebbe nessuno”, continua Masucci
Il dibattito, infatti, non è solo scientifico o economico, ma anche politico e culturale. La sovranità dei semi è un tema centrale e per questo si stanno formando in tutto il Pianeta alleanze dal basso – formate da reti agricole, movimenti indigeni, organizzazioni ambientaliste, associazioni dei consumatori – per costruire una risposta robusta alla deregolamentazione e al controllo corporativo delle sementi. Attraverso azioni legali, mobilitazione diretta, campagne di informazione.
La protesta comincia a dare di suoi effetti. Oltre all’Ecuador e al Venezuela, in cui il divieto sta in Costituzione, in Sudafrica sono entrati in vigore di recente divieti e moratorie e in Messico (ma anche in Colombia) dal 2025 esiste un divieto nazionale costituzionale sul mais Ogm. Moratorie e norme che impongono cautele sono state emesse anche nelle Filippine, in Bangladesh e in alcune parti della Cina. E anche in Africa, che pure subisce una pressione crescente all’adozione di Ogm e colture da gene editing presentate come soluzioni alla fame da potenti interessi industriali e filantropici, società civile e reti di agricoltori si stanno mobilitando per un cambio di paradigma.
L’Europa, come già detto, si trova a un bivio normativo. Da un lato, le lobby industriali premono per la conferma della deregolamentazione che esenterebbe molte colture anche da tracciabilità ed etichettatura, dall’altro mobilitazioni di agricoltori biologici, gruppi ambientalisti e coalizioni per la democrazia alimentare (come la Coalizione Italia Libera da Ogm, di cui fanno parte tra l’altro, oltre a Navdanya International, Greenpeace, Legambiente, Lipu, Wwf, Slow Food), chiedono il rispetto del principio di precauzione e tutele per i consumatori.
Il bivio è questo: accettare la privatizzazione di beni comuni da cui scaturisce il nostro cibo oppure difendere trasparenza, biodiversità e governance democratica dei semi. Una biodiversità da cui scaturisce salute perché, come nota a sua volta il genetista Salvatore Ceccarelli, autore dell’introduzione al rapporto, “a una maggiore diversità corrisponde una maggiore produttività e resilienza al cambiamento climatico, proprio come dalla diversità della dieta dipende la nostra salute fisica”.