Politica

Il problema delle regionali non è chi vincerà, ma quanti non voteranno

Secondo il sondaggio Ipsos, in Campania il numero degli astenuti dovrebbe aggirarsi intorno al 64%. Un dato tutt’altro che rassicurante

di Francesco Miragliuolo*

L’ultima settimana di campagna elettorale è iniziata: domenica 23 e lunedì 24 novembre noi campani voteremo per eleggere il prossimo Presidente della Giunta e il nuovo Consiglio regionale. Eppure, dai sondaggi, ciò che dovrebbe preoccuparci di più è il dato degli astenuti, che dovrebbe aggirarsi intorno al 64% secondo Ipsos. Un dato tutt’altro che rassicurante.

Dovremmo tutti interrogarci su come e quando si sia generata questa frattura, e soprattutto perché.
Un primo elemento è sicuramente il trionfo del capitalismo, così come era stato prefigurato nella visione thatcheriana: qualcosa che “non si può cambiare”, destinato soltanto a radicalizzarsi. E infatti questa sembra la tendenza verso cui ci stiamo muovendo, se pensiamo che ormai, in moltissimi Paesi, quel modello ha piegato a sé anche il diritto pubblico, orientandolo verso ciò che il prof. Alberto Lucarelli definisce “riformismo della governance”: quel tipo di riforme che, invece di restituire potere ai cittadini, si limitano a riorganizzare la macchina amministrativa — nuove procedure, nuovi organigrammi, nuovi strumenti di controllo — senza incidere mai sui rapporti di forza.

È un riformismo che parla il linguaggio della gestione, non quello della democrazia: la politica viene sostituita dalla tecnica, il conflitto dalla retorica dell’efficienza. Si cambia tutto perché, in realtà, non cambi nulla.

L’altro grande motivo della frattura tra rappresentati e rappresentanti è il venir meno di quella “democrazia dei partiti” immaginata dai costituenti. I partiti, oggi, sembrano incapaci di costruire un’idea di mondo e, a partire da quella, selezionare la propria classe dirigente. È venuta meno la funzione pedagogica, comunitaria, culturale della politica, e questo ha lasciato un vuoto che l’individualismo non è riuscito a colmare. Che fare, allora? Nel suo volume Il costituzionalismo tra tradizione e prassi (ESI), il professor Lucarelli ricorda che l’unica via d’uscita non è rassegnarsi alla tecnocrazia, ma ricostruire ciò che definisce una “teologia civica”: una comunità di cittadini capace di tornare vero contro-potere, guardiano permanente delle istituzioni.

Non un civismo di facciata, fatto di buone maniere e campagne social, ma una partecipazione concreta, organizzata, capace di controllare, criticare e orientare le scelte di chi governa.

È questa partecipazione reale che permette di superare la dicotomia fra diritto e realtà, fra tradizione e prassi.
Il diritto, infatti, vive solo se diventa azione collettiva, e l’esperienza dei beni comuni — dall’acqua pubblica alla cura dei territori — ha mostrato che quando il diritto si mette al servizio della pratica sociale può diventare trasformativo.
È ciò che Arendt chiamava democrazia militante: una democrazia capace di difendersi quando è minacciata. Per comprendere il ruolo del voto, bisogna tornare ai fondamenti.

L’articolo 1 della Costituzione indica che la sovranità “appartiene al popolo”. Quel verbo non lascia spazio a equivoci: la sovranità resta ai cittadini, non è una delega in bianco. Se lo leggiamo insieme all’articolo 48, appare chiaro che il voto non è un atto episodico ma il compimento di un percorso di partecipazione: è personale, libero, uguale e segreto proprio perché presuppone discernimento, responsabilità, consapevolezza. Altrimenti — come avverte Luciano Canfora — rischiamo di scivolare nell’elezionismo, la riduzione della democrazia a un rito svuotato, a un gesto privo di legame con la vita pubblica.

L’alternativa sta nella ricostruzione di quello che Lucarelli definisce populismo democratico: una partecipazione popolare vigile, permanente, capace di esercitare pressione sulle istituzioni e di rinnovare la rappresentanza dal basso.
È da qui che può prendere forma quella “democrazia progressiva” di cui parlava Togliatti: una democrazia che non si limita a conservare, ma avanza, include, si espande nella società, amplificando gli spazi di sovranità popolare. Allora ecco che il voto è il primo passo per ridare dignità a noi stessi, come cittadini — cittadini intesi come comunità che si fa Stato — ricordando che il voto non è un rituale, ma un esercizio concreto di responsabilità: il punto da cui riparte una rappresentanza più forte, più esigente, più vicina ai bisogni reali della Campania.

Rinunciare al voto significa lasciare che altri decidano al nostro posto; esercitarlo significa tornare protagonisti del futuro di questa terra.

* Studente di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli e attivista politico