
La condanna per associazione mafiosa di Rosita Grande Aracri, figlia di Francesco, riporta l’attenzione sul ruolo delle figure femminili nella cosca egemone a Reggio Emilia
La recente sentenza del 14 ottobre (giudice Roberta Malavasi), che condanna in primo grado Rosita Grande Aracri a 7 anni e 2 mesi di carcere per il reato di appartenenza ad associazione mafiosa, rappresenta un altro duro colpo inferto alla famiglia Grande Aracri e alla cosca che aveva come epicentro Reggio Emilia. Scrive la SISCO di Bologna (Sezione investigativa della Polizia sulla criminalità organizzata), che ha condotto le indagini per la Procura Distrettuale Antimafia: “Le condanne di Aemilia, Grimilde, Perseverance e Aemilia 1992 hanno di fatto decapitato i vertici della cosca” ma l’attenzione va “mantenuta elevata” per la decennale presenza della ‘ndrangheta in Emilia.
Dietro le sbarre sono ora i capi storici, i fratelli Nicolino e Francesco Grande Aracri, che dialogavano tra Cutro e le rive del Po. Decapitata è anche la famiglia Sarcone, che ha cambiato il vestito della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, abbandonando il pizzo per la più remunerativa falsa fatturazione. In carcere sono i fratelli Nicolino, Gianluigi, Carmine e Giuseppe Grande, punto di riferimento della cosca ai piedi delle colline emiliane. Ma altri membri delle famiglie e altre famiglie hanno preso le redini degli affari illeciti, come dimostrano le ultime indagini (Ten, Sisma, Aspromonte Emiliano, ecc.). E quando vengono a mancare gli uomini perché incarcerati, in una ‘ndrangheta che resta comunque profondamente maschilista, sono le donne a rimboccarsi le maniche e a guidare le attività.
Figura simbolica della mafia al femminile è Karima Baachaoui, donna di origini tunisine legata sentimentalmente a Gaetano Blasco, come lui colpita da una pesante condanna nel processo Aemilia. Ma Karima di galera non ha fatto neppure un giorno, perché è magicamente scomparsa dall’Italia e si è resa latitante appena prima della notte degli arresti, il 28 gennaio 2015, quando anche il suo nome era nella lista dei 117 indagati per i quali i giudici avevano accolto le richieste cautelari. Nove anni dopo è Giuseppina Sarcone, sorella gemella di Carmine, a finire condannata in appello nel processo Perseverance (1 anno e 4 mesi) per intestazione fittizia di società. Quell’indagine è la certificazione che la mafia in Emilia, sotto la guida dei Sarcone (i quattro fratelli maschi) si è evoluta, ha stretto profondi legami con il territorio di conquista, si è inserita nel mercato come un “fornitore di servizi illeciti” affidabile e sicuro, incontrando spesso la disponibilità di imprenditori emiliani più attenti al facile guadagno che al rispetto delle leggi.
Anche Rosita è una sorella: di Salvatore e Paolo Grande Aracri, i figli maschi di Francesco che mandavano avanti gli affari da Brescello. Rosita, detta Rossella, ha oggi 42 anni e aveva già subito una condanna definitiva nel rito abbreviato di Grimilde per una vicenda simile a quella di Giuseppina Sarcone: il trasferimento fraudolento della società Eurogrande Costruzioni srl, riconducibile al padre Francesco, per evitarne la confisca. Faceva da prestanome insomma, ma secondo le accuse formulate dalla Dda e illustrate in requisitoria del Sostituto Procuratore Beatrice Ronchi, faceva anche molto di più nel ventennio tra il 2004 e il 2023. Aiutava il padre negli affari e teneva i rapporti per lui, una volta arrestato, con uomini di spicco della ‘ndrangheta: Giuseppe Giglio, Gianni Floro Vito, Antonio Silipo, Gaetano Blasco, Antonio Muto. Era lei il filo più robusto che legava i Grande Aracri di Brescello al capo indiscusso della cosca, Nicolino, quando il padre Francesco era in carcere o gli era proibito recarsi in Calabria. Era lei a percorrere i 1100 chilometri tra i due comuni per abbracciare la moglie del boss Giuseppina Mauro e la cugina Elisabetta, entrambe poi condannate definitivamente a pene pesanti nel processo Farmabusiness istruito dalla Dda di Catanzaro.
Un processo che parla molto emiliano, per la presenza del fratello di Rosita, Salvatore Grande Aracri, ai vertici dell’organizzazione criminale che intendeva operare nel mercato dei farmaci e dei parafarmaci. Destini comuni, quelli di Rosita e della cugina Elisabetta, sia perché figlie di fratelli riconosciuti mafiosi da sentenze ormai passate in giudicato, sia perché a loro volta colpevoli non solo di essere figlie di malviventi (che non è di per sé una colpa), ma di avere esercitato “in maniera sicura un ruolo dinamico-funzionale, apparendo direttamente assoggettata alle determinazioni del padre Nicolino e della madre Giuseppina”. La frase tra virgolette è contenuta nella sentenza Farmabusiness, riferita a Elisabetta, figlia di Nicolino. Ma nella propria requisitoria a Bologna la PM Beatrice Ronchi la fa propria a giugno 2025, dicendo che calza a pennello anche per Rosita, semplicemente sostituendo agli zii i nomi del padre di lei Francesco e del fratello Salvatore. La conclusione di Beatrice Ronchi è che le condotte di Rosita Grande Aracri travalicano la mera appartenenza famigliare e costituiscono “un continuum”, una stabile messa a disposizione, un costante e consapevole contributo, gestendo dal quartier generale di Brescello, “sotto le mentite spoglie di imprenditrice o di efficiente segretaria”, le operazioni mafiose. Un contributo fondamentale, conclude la dott.ssa Ronchi, per l’espansione imprenditoriale della cosca nel tessuto economico della Regione, dello Stato, e anche all’estero.