
Come tutti i movimenti armati di questo tipo, da un punto di vista militare Hamas e gli altri gruppi armati della Striscia - come le Brigate al Quds del Jihad Islamico, o i "martiri di Al Aqsa, o le Brigate Abu Ali Mustafa dell'Fplp - escono "vittoriosi" nella misura in cui continuano ad esistere e porre potenziali minacce al nemico
La firma di un’intesa per il cessate il fuoco israeliano su Gaza, con l’avvio di uno scambio di prigionieri tra Israele ed Hamas, è una piccola cesura su questi due anni di assedio, in attesa di capire la sua sostenibilità nel tempo. Il primo dato, che buona parte degli osservatori sembrano dare per scontato o sottovalutare, è proprio la sopravvivenza, ed in qualche modo la riaffermazione di Hamas. Se è vero, come racconta il negoziatore israeliano Gershon Baskin, che questa intesa nei suoi punti principali era stata proposta già un anno fa, quando fu recepita dal gruppo islamista palestinese ma rigettata da Tel Aviv, che riprese i bombardamenti al fine di “distruggere completamente Hamas”, pur al rischio di lasciare indietro gli ostaggi israeliani, il fatto che ad ottobre 2025 ci siano ancora i negoziatori di Hamas a raggiungerla, ed Hamas stessa abbia ottenuto uno scambio di prigionieri, segnala che l’obiettivo israeliano di “distruggerla” è definitivamente fallito. Pur al netto del crescente isolamento dei membri del Consiglio della Shura di Hamas stessa, i cui sponsor e interlocutori in Egitto e in Qatar sono sempre più preoccupati di essere nuovamente oggetto di futuri bombardamenti israeliani sul proprio territorio, come accaduto un mese fa a Doha.
Non solo perché, come ricorda su Al Jazeera l’analista dell’International Crisi Group, Azmi Keshawi, Hamas viene percepita da un corposo segmento di palestinesi come una “idea“, e come un rappresentante – non esclusivo – della lotta armata contro l’occupazione, legittima secondo il diritto bellico, che “nei prossimi mesi attirerà nuovi giovani orfani e sradicati tra i suoi ranghi”; ma anche perché i suoi effettivi, per quanto decimati, dopo 730 giorni di bombardamenti a tappeto e la distruzione dell’80% degli edifici, sono ancora attivi nella striscia, ancora in grado di rendere troppo dispendiosa la permanenza ed il pattugliamento del territorio da parte delle truppe israeliane, ed ancora in grado di proporre dei correttivi all’iniziale piano di Trump.
Come tutti i movimenti armati di questo tipo, che fronteggiano un esercito regolare, da un punto di vista militare Hamas e gli altri gruppi armati della Striscia – come le Brigate al Quds del Jihad Islamico, o i “martiri di Al Aqsa, o le Brigate Abu Ali Mustafa dell’Fplp – escono in qualche modo vittoriosi da un conflitto nella misura in cui non perdono, nella misura in cui continuano ad esistere e porre potenziali o concrete minacce al nemico. L’obiettivo principale della guerra di Netanyahu – “sconfiggere Hamas”, oppure obbligarlo allo smantellamento – non è stato quindi raggiunto, mentre quello della liberazione degli ostaggi israeliani, prevista per lunedì 13 ottobre, verrà raggiunto con più di un anno di ritardo e diverse migliaia di morti in più, sia tra gli stessi ostaggi che soprattutto tra i civili palestinesi.
La dimensione del potere politico di Hamas viene spesso fraintesa: in modo non troppo dissimile da Hezbollah in Libano, Hamas non ha mai considerato una priorità il fatto di “governare” la Striscia (al netto dell’occupazione israeliana, che controlla spazio aereo, marittimo, l’anagrafe, l’approvvigionamento energetico, l’import e l’export, ecc): la gestione del potere è sempre stata funzionale alla dimensione della lotta armata, il suo mantenimento volto a fornire ad essa una “copertura politica“, così come Hezbollah ha sempre ricercato in Libano l’appoggio politico di una parte dell’arco parlamentare al mantenimento del suo discusso arsenale militare. Il potere politico è quindi utile in termini funzionali, non in quanto tale.
Questo è il motivo per cui Hamas da oltre un anno si dichiara disponibile a “lasciare il controllo della Striscia ad altri attori palestinesi”, e nella fattispecie all’Autorità Nazionale Palestinese, che tuttavia secondo il piano di Trump dovrebbe realizzare una serie di “riforme“, prima di vedersi riconosciuto e “ceduto” dal “Board of Peace” il diritto a governare la Striscia. Secondo quanto emerso dai colloqui, oltre che dagli ultimi due anni, Tel aviv ha sempre chiesto la resa e lo smantellamento di Hamas (o di qualunque gruppo armato) come condizione principale per porre fine alla guerra, in modo non dissimile da quanto richiesto 30 anni fa nell’ambito degli Accordi di Oslo per la nascita di uno Stato palestinese, salvo poi rinfoltire gli insediamenti coloniali in Cisgiordania che ne hanno di fatto precluso anche solo una fase embrionale; Hamas, da parte sua, ha sempre considerato il tema delle sue armi come una sorta linea rossa, forte di quanto stabilito dal diritto umanitario internazionale per quel che concerne aree sotto occupazione.
Una linea rossa perlomeno in pubblico, perché secondo Hugh Lovatt dell’European Council on Foreign Relations (ECFR), rappresentanti di Hamas avrebbero confidato ad una serie di interlocutori la disponibilità a discutere la rinuncia ad una serie di “armi offensive”, come missili a corto e medio raggio, che però in ogni caso dovrebbero ricadere sotto il controllo esclusivo di soggetti palestinesi, di una concreta Autorità Palestinese, che abbia “sovranità piena sulla Striscia dopo il ritiro completo delle truppe israeliane”. Sembra inoltre da escludere che la stessa Hamas renda pubblica o disponibile la mappatura completa della grande rete di tunnel sotterranei, considerati una infrastruttura civile – per l’afflusso clandestino di beni di vario tipo – e anche militare, specialmente contro le campagne di bombardamenti aerei. Che non è detto non riprendano, come già accaduto diverse volte. Inoltre, un altro motivo per cui Hamas non sembra voler rinunciare alle armi leggere è legato alla imminente gestione dei conflitti e della sicurezza interna, se è vero che una serie di bande armate, guidate da galeotti come Yasser Abu Shabab, addestrate dalle stesse Idf, sarebbero oggi fuori controllo.
Si potrebbe quindi pensare che Hamas vada incontro ad un ridimensionamento sul piano politico, su quello della gestione del potere amministrativo ed anche su quello puramente militare, dal punto di vista delle capacità offensive rispetto ad Israele. Proprio mentre la sua popolarità, derivante dalla sua sopravvivenza in uno scenario apocalittico, potrebbe stimolare nel medio termine l’esordio di una nuova generazione di miliziani, guidati dal desiderio di vendetta.
Ciò potrebbe assumere ulteriore consistenza se si parla della West Bank, dove Hamas non ha mai governato, ma nella quale si allargano senza sosta gli insediamenti coloniali israeliani, principale ostacolo alla autodeterminazione palestinese. Circa 250 tra gli ergastolani palestinesi che Tel aviv rilascerà nell’ambito dello scambio di ostaggi, sono originari proprio della West bank, e nel corso dei prossimi mesi, con gli occhi del mondo puntati sulla “transizione” della Striscia, o magari su quelle che secondo varie fonti potrebbero essere imminenti e nuove azioni militari israeliane in Iran, potrebbero concorrere all’apertura di una nuova stagione di conflitto.