
Il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Biomedical Engineering, si deve alla ricerca guidata dall'Università britannica di Cambridge, University College di Londra e Politecnico canadese di Montréal
La lotta della ricerca scientifica per comprendere e forse curare un giorno le malattie neurodegenerative prosegue con un nuovo successo. Per la prima volta è stato osservato il meccanismo che innesca la malattia di Parkinson, permettendo un passo importante nella comprensione della malattia neurologica in più rapida crescita nel mondo e aprendo la strada a nuovi metodi per la diagnosi e in futuro e nuove terapie.
Il Parkinson è una malattia cerebrale progressiva e degenerativa, di cui ne soffrono circa 300mila italiani e che si prevede colpirà 25 milioni di persone nel mondo entro il 2050. Tra i disturbi associati alla malattia sono inclusi un rallentamento dei movimenti, tremori, rigidità muscolare e disturbi del linguaggio. Il Parkinson, insieme ad altre condizioni neurodegenerative come l’Alzheimer, causa l’accumulo di proteine nei neuroni, che porta a un ripiegamento errato delle proteine e a una compromissione della funzionalità cellulare. Le attuali terapie possono alleviare alcuni sintomi, ma non affrontano la causa principale del ripiegamento errato delle proteine.
Il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista Nature Biomedical Engineering, si deve alla ricerca guidata dall’Università britannica di Cambridge, University College di Londra e Politecnico canadese di Montréal. I ricercatori hanno osservato, osservare direttamente nel cervello umano, gli aggregati di proteine che si ritiene la malattia. Sono piccoli ammassi chiamati ‘oligomeri di alfa-sinucleina’ e finora è stato impossibile individuarli a causa delle loro ridottissime dimensioni, di pochi nanometri.
Per oltre un secolo i ricercatori hanno riconosciuto la malattia di Parkinson basandosi sulla presenza di grandi aggregati proteici chiamati ‘corpi di Lewy‘. Si sospettava, però, che a innescare la malattia fossero degli ammassi molto più piccoli. “I corpi di Lewy sono il segno distintivo del Parkinson, ma ci dicono sostanzialmente dove è passata la malattia, non dove si trova ora”, – dice Steven Lee di Cambridge, che ha coordinato lo studio insieme a Lucien Weiss del Politecnico canadese e Sonia Gandhi dello Ucl.
Per riuscire a individuare questi minuscoli ‘inneschi’, gli autori dello studio hanno messo a punto una tecnica che usa un microscopio ultrasensibile, in grado di isolare il segnale estremamente debole degli oligomeri. “È come poter vedere le stelle in pieno giorno“, commenta Rebecca Andrews di Cambridge attualmente all’Università di Zurigo, prima firmataria dell’articolo insieme a Bin Fu e Christina Toomey. In questo modo, i ricercatori hanno scoperto che gli oligomeri di alfa-sinucleina sono presenti sia nei cervelli sani che in quelli malati di Parkinson, ma in questi ultimi sono più grandi, luminosi e numerosi.