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Atleta keniota trovato in un campo di prigionia ucraino: così l’Africa è costretta a combattere ancora una guerra non sua

Evans Kibet, giovane keniota, ritrovato in un campo di prigionia ucraino: il simbolo di un nuovo colonialismo militare

Evans Kibet, giovane atleta con più sogni che scarpe, è stato ritrovato in un campo di prigionia in Ucraina, dove la guerra non chiede il permesso né il passaporto. Il suo grido — “Sono keniota, non sparate!” — dalla Bbc è rimbalzato tra i media internazionali come un’eco di disperazione.

Ma non è solo una voce: è il manifesto tragico di una nuova tratta, quella dei corpi africani spediti al fronte russo come carne da cannone, con la scusa di un contratto, la promessa di un lavoro, e il silenzio complice di chi dovrebbe vigilare.

Dietro la retorica del “volontariato militare” si nasconde una realtà che non ha bisogno di metafore: l’Africa, ancora una volta, combatte guerre che non le appartengono, ma che la usano come magazzino umano. Uno scandalo che ha scosso le fondamenta dell’opinione pubblica keniota, quando ha letto l’inchiesta di Chas Pravdy del 23 settembre 2025. Il governo ha finalmente aperto gli occhi e un’indagine: una rete di reclutatori locali e intermediari digitali — dodici arresti finora — avrebbe costretto giovani cittadini a firmare contratti con il Ministero della Difesa russo. Il Centro di contrasto alla disinformazione ha confermato che oltre trenta kenioti sono stati trasferiti illegalmente in Russia negli ultimi sei mesi.

Il Ministero degli Esteri del Kenya ha accusato Mosca di usare gli africani come pedine strategiche di un colonialismo di ritorno. E parlando di colonialismo, torniamo indietro. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Francia arruolò oltre 130.000 africani nelle sue truppe coloniali. I Tirailleurs Sénégalais — venuti da Senegal, Mali, Guinea, e altre terre che la Francia chiamava “sue” — combatterono per liberare l’Europa dal nazifascismo. Molti morirono senza nome, altri tornarono con pensioni da fame e ferite che nessun monumento ha mai voluto ricordare. La loro storia è la prova che l’eroismo africano è sempre stato utile, ma mai celebrato.

Nel 1944, durante lo sbarco in Provenza (Operazione Dragoon), oltre 130.000 soldati africani combatterono per liberare la Francia dai nazisti. Tra loro vi erano anche truppe provenienti dal Pacifico e dalle Antille, ma furono gli africani a pagare il prezzo più alto in termini di vite e riconoscimenti.

Molti di questi uomini, come Sadio Coulibaly, veterano senegalese racconta “i proiettili ad Hanoi non distinguevano tra bianchi e neri,” riferendosi alla guerra d’Indocina. Dopo anni di servizio, ricevette una pensione di appena 100 euro al mese, una frazione di quella dei veterani francesi.

Oggi il reclutamento non ha più bisogno di bandiere: bastano un Wi-Fi instabile, un modulo in russo, e un biglietto di sola andata. Le reti criminali sfruttano la vulnerabilità economica come un bisturi: tagliano, prelevano e spediscono. Cambiano i volti, non le dinamiche. Giovani africani continuano a essere mandati al fronte, spesso senza sapere chi stanno combattendo né perché. Le testimonianze parlano di documenti sequestrati, contratti firmati sotto minaccia, addestramento inesistente. Alcuni sono stati catturati, altri risultano dispersi.